Credere nel sogno europeo nonostante l’Europa dei banchieri
Ci accingiamo a celebrare il sessantesimo anniversario del Trattato di Roma, che sancì la nascita della futura Unione Europea. Dovrebbe essere un giorno di festa, di grande festa, ma non lo è, perché l’Europa, come concetto unitario, è scaduta nel cuore di chi la abita, ammesso che vi sia mai stata secondo i princìpi di coloro che, a giusta causa, possono definirsi “europeisti”. Un edificio costruito male, del resto, con fragili fondamenta e su un terreno non consono, è destinato a cadere. Il destino dell’Europa come progetto unitario, pertanto, era già segnato quando si partì con il piede sbagliato. “CEE” fu il nome dato al Trattato Internazionale, ossia Comunità Economica Europea. Anteporre la progettualità economica a quella politica equivale a costruire un grattacielo partendo dall’ultimo piano. Tutto ciò che è accaduto in questi decenni, ivi compreso il mancato sviluppo di una vera coscienza unitaria, è la conseguenza di quel madornale errore, che perpetuava una propensione economicistica già attuata nel 1951, con il Trattato costitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Di Stati Uniti d’Europa non si parlava se non accademicamente, perché i rigurgiti nazionalistici, presenti ovunque, non consentivano adeguati spazi in tal senso.
Le ragioni di un fallimento
In tre precedenti articoli, facilmente reperibili cliccando sul mio nome, ho esposto il lungo cammino che ha segnato il progetto federativo europeo. Ritengo superfluo, pertanto, ribadirne le varie fasi. Qui basta ricordare un solo concetto, dal quale partire per un’analisi che consenta di rappresentare in modo adeguato l’Europa contemporanea e dare un senso realistico a una celebrazione che, inevitabilmente, può solo sancire il trionfo dell’ipocrisia politica: il sogno europeo, nel corso dei secoli, ha pervaso le menti e i cuori di ben pochi soggetti, i quali, nella stragrande maggioranza dei casi, non avevano alcuna possibilità di incidere autorevolmente per l’istituzione degli Stati Uniti d’Europa. La classe politica continentale, a sua volta, è stata solo attenta ad “autotutelarsi”, senza mai preoccuparsi di creare i giusti presupposti per un vero progetto federativo che si configurasse sul modello degli Stati Uniti d’America. Non sono mancati politici autenticamente e sinceramente europeisti, ovviamente, ma nulla hanno potuto contro potentati di varia natura che li hanno facilmente messi fuori gioco. Oggi, purtroppo, stiamo sperimentando sulla nostra pelle quanto ci manchi un governo federale autorevole, un presidente europeo, un vero esercito europeo. Stiamo sperimentando, quindi, magari inconsapevolmente, quanto ci manchino gli “Stati Uniti d’Europa”.
Nel lontano 1977 scrissi il mio primo articolo europeista, sulla prestigiosa Rivista di Studi Corporativi, diretta dal compianto Gaetano Rasi. Vengono i brividi a rileggerlo: i concetti espressi potrebbero essere riproposti in toto oggi. E sono passati quaranta anni. L’Europa è una vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni, nella sua storia millenaria, per lo più terminanti in “ismo”. Tutte le infezioni sono state debellate, eccezion fatta per una distorta concezione del “nazionalismo”, che in molte aree sconfina in bieco provincialismo, non scevro di razzismo, termine che va sempre scritto senza alcun bisogno di supporto aggettivante, perché si caratterizza da solo. Chiunque abbia una coscienza europea ben sa quanto sia affascinante sentirsi connazionale di circa seicento milioni di persone, nonché sentirsi a casa propria ovunque ci si trovi, in un continente di oltre nove milioni di chilometri quadrati. (I dati fanno riferimento alla “ridefinizione” dei confini, descritta nell’articolo pubblicato il 13 dicembre 2016). La stupenda sensazione, però, si trasforma subito in mestizia, essendo ben chiaro quanto sia lontana la meta di un’Europa davvero unita sotto un’unica bandiera.
E’ amaro dirlo in questo giorno, ma l’incapacità di prevedere il futuro, da parte dei cosiddetti padri fondatori dell’Unione Europea (eccezion fatta per Altiero Spinelli), ha prodotto guasti immani. Nelle loro menti non era assente l’idea di un reale progetto federativo: essendo prima di tutto dei politici, però, lo sacrificarono alla realtà contingente, che non era (e non è) ancora pronta per questo passo. Altiero Spinelli, che aveva le idee ben chiare circa l’importanza dell’unità politica, dovette subire gli eventi della storia senza poterli condizionare più di tanto. Sancendo il primato dell’economia sulla politica, di fatto, l’Europa si è condannata a morte, con lenta agonia.
Il miraggio di Maastricht
Il 7 febbraio 1992, nella tranquilla cittadina di Maastricht, i dodici stati della Comunità Europea sottoscrissero il famoso trattato che, di fatto, istituì l’Unione Europea. Sulla fase preparatoria dei lavori e sullo svolgimento degli stessi esiste una corposa e interessante bibliografia, purtroppo pochissimo nota, nonostante la sua fondamentale importanza per la vita di milioni di cittadini. Un po’ più difficile reperire le “verità nascoste”, capaci di offrire una visione realistica dell’evento. Entrare nel ginepraio dei fatti, anche se alcuni di essi – è corretto affermarlo in premessa – sono caratterizzati da elementi così paradossali che rendono oltremodo difficile distinguere la parte storica da quella leggendaria, consente di percepire sia la leggerezza sia il cinismo con i quali i potenti di turno abbiano giocato a dadi con il destino degli europei. I presupposti, apparentemente, costituiscono quanto di meglio si possa desiderare per un individuo. Nella realtà – quella realtà che prepotentemente è deflagrata negli ultimi tempi – il trattato evidenzia l’esaltazione di un momento, quello successivo alla caduta di Berlino, la pervicace volontà egemonica dei maggiori fautori e anche una sorta di mancanza di lungimiranza da parte di alcuni illusi, a cominciare dal nefasto Jaques Delors, che realmente pensava di utilizzare la moneta unica per agevolare il processo di integrazione politica. Purtroppo le sue tesi trovarono valido supporto in paesi come Francia, Italia e Germania, scardinando le deboli obiezioni poste da Danimarca e Portogallo. Fa storia a sé l’euroscetticismo della Thatcher, che le costò la poltrona di primo ministro, nel 1990, influendo non poco sulla fine della sua carriera politica. E’ impossibile ripercorrere in questo contesto le fasi salienti del trattato e, nel mio pur corposo archivio, non sono riuscito a reperire un fondamentale testo che riporta l’errore relativo ai parametri stringenti per la gestione economica dei singoli stati. Come noto, infatti, gli articoli 99 e 104 prevedono di evitare disavanzi eccessivi e il non superamento dei rapporti del 3% deficit/Pil e del 60% debito/Pil. Parametri accettati, almeno fino a qualche anno fa, con la stessa semplicità con la quale si accetti una ricetta del medico per curare un raffreddore e quindi senza chiedersene “la ratio”. In base a quale dottrina sono stati scelti proprio quei parametri? La spiegazione più accreditata è quella relativa alla situazione economica, che all’epoca si configurava in un contesto di crescita. Già questo è un evidente errore, perché non si possono fissare paletti “eterni” in una materia così fluida e variabile come la politica economica. (E i fatti dell’ultimo decennio ne sono la prova più lampante). La cosa più buffa, però, che cito a memoria perché nel mio pur sterminato archivio non sono riuscito a reperire la fonte (e quindi sono pronto al “crucifige” nel momento in cui vi dico: fidatevi di me) è stato il modo con cui si è giunti a fissare quello che, in gergo economico, si chiama “modello di Domar”. Sostanzialmente accadde questo: i rappresentanti dei vari governi, dovendo fissare i parametri, chiesero ai membri del loro Staff di individuarli. Essi, di fatto, furano fissati da oscuri economisti, che lavorarono su processi economici non pertinenti. I politici si limitarono a prendere atto del rapporto e a ratificarlo, senza sottoporli a pareri più autorevoli, in grado di rilevarne l’incongruità e le possibili conseguenze negative. Sembrano cose pazzesche, vero? Non sono state le sole, ma non vi è spazio per una trattazione esaustiva.
L’Europa di oggi, l’Europa di domani
La realtà è sotto gli occhi di tutti e tante parole non servono. L’Europa dei banchieri e dei mercanti ha ucciso il sentimento europeo. Il continuo appello alla doppia velocità ha sancito il fallimento di Maastricht. Il rigurgito del nazionalismo, ovunque, ha ucciso la convenzione di Schengen. La mancanza di coesione nella gestione della crisi mediorientale e dei profughi ha allontanato, e non di poco, il sogno europeo. L’autore di questo articolo è il leader di un movimento che si chiama “Europa Nazione” e coltiva il sogno degli Stati Uniti d’Europa da quando portava i pantaloni corti. Sono abituato da sempre alle risate di scherno e non mi fanno specie. Passeranno decenni, forse secoli, ma verrà il giorno in cui qualcuno potrà davvero sorridere sotto una bandiera europea, da “Europeo”. Voglio crederlo. Ovunque sarò, in quel momento, sorriderò anche io, con tutti coloro che al sogno europeo hanno dedicato la vita. Oggi non ho nulla da festeggiare, pertanto. Mi resta solo di sfogliare vecchi libri e vecchie riviste, inseguendo ricordi mai assopiti, per poi provare a strimpellare sulle corde della chitarra le note di quella canzone che cantavo in gioventù: “Da Praga a Stettino, da Roma a Berlino, un sol grido si leva, un sol grido si leva, Europa Nazione sarà; Europa Nazione sarà”. Sì, la voce è rotta dall’emozione, ma è bello gridare, con l’entusiasmo di un ventenne, “La mia Patria si chiama Europa”. Perché c’è voluto davvero tanto talento per diventare vecchio e non adulto.