Gramsci? Era gentiliano. Marx? Leggiamolo in chiave sovranista
«Ha presente Gramsci? Ecco, va fatta una battaglia per l’egemonia culturale». Così lo “stratega” renziano Tommaso Nannicini , bocconiano al servizio del nuovo “Principe” ha recentemente sintetizzato, in una intervista a La Stampa, l’ambizione ideologica del leader piddino. Chissà che cosa ne penseranno Bersani e D’Alema di questo “scippo” ideologico da parte di Renzi. Il problema è serio, ma va bene al di là del solito gioco al “Pantheon culturale” dei soggetti politici odierni. Perché il problema dell’ “egemonia culturale” è questione irrisolta dalla fine della Prima repubblica in poi. Nessuna forza è riuscita a imprimere il proprio marchio al senso comune degli italiani. I processi spontanei in atto nella società vanno oggi comunque in una direzione opposta rispetto a quella della sinistra liberal che ha soppiantato progressivamente la sinistra “di classe” di ispirazione marxista leninista. Perché sono processi che conducono alla riscoperta del sentimento identitario dei popoli e del principio della sovranità. I renziani puntano però a sintetizzare elementi culturali opposti ed eterogenei: dal cosmopolitismo in salsa liberal, da una parte, al “populismo” anti-Merkel dall’altra. Va da sé che non si tratta di una operazione semplice. E una operazione che non può essere condotta in profondità da un qualunque spin doctor, tutto tablet e smartphone.
Il concetto di egemonia
Non è quindi una caso se Nannicini si è richiamato a Gramsci. Perché è stato appunto il pensatore sardo ad aver teorizzato il concetto di egemonia culturale. È stato lui ad aver tentato di elaborare un pensiero capace di fare “sintesi” . E lo ha fatto – qui sta il punto decisivo – non per spirito teoretico, ma allo scopo di cambiare la società. Quindi, quella che Gramsci cercava, non era altro che una “filosofia della prassi”. Un filosofia capace di ispirare una strategia politica rivoluzionaria, senza avere di mira solo e necessariamente i “rapporti di classe” , ma gli schemi mentali delle élites intellettuali e, via via, delle masse.
Gramsci, Croce e Gentile
Ma è fatale, per tale via, l’incontro di Gramsci con i maestri del pensiero italiano del suo tempo: Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Ne ha riparlato tempo fa Eugenio Scalfari. Tra le «sacre scritture» di Gramsci – ha scritto il fodatore de la Repubblica – «non c’erano solo Marx ed Engels ma Antonio Labriola, Giustino Fortunato e persino Benedetto Croce». “Persino” Benedetto Croce? In realtà, per l’intellettuale sardo, l’incontro con il neoidealismo italiano fu cruciale per l’elaborazione del suo pensiero politico. Ma c’è di più, molto di più: se Scalfari avesse letto Il suicidio della rivoluzione di Augusto Del Noce (Rusconi 1978) avrebbe appreso una geniale interpretazione della storia del pensiero italiano del ‘900. Perché – come dimostrò Del Noce – il pensiero di Croce appreso da Gramsci (o, per meglio dire, quello che a Gramsci interessava maggiormente) era in realtà un pensiero profondamente influenzato da Gentile. Quindi – è la tesi di Del Noce – Gramsci, incontrando Croce, incontrò in realtà Gentile.
La “riforma” gramsciana del marxismo
Proviamo a condensare in due parole l’interpretazione delnociana del rapporto Gramsci-Croce-Gentile. Tutto nasce dal fatto che a Gramsci, ai fini della sua filosofia della prassi, non poteva bastare il marxismo, così come questo era stato recepito nel nostro Paese . In effetti, in quei primi decenni del’900, il marxismo era ovunque oggetto di “riforma”. La più potente e la più terribile fu la “riforma” leniniana, con il marxismo-leninismo che ne seguì. L’intellettuale sardo, pur condividendo il pensiero e la prassi di Lenin, innovò comunque il marxismo. La tesi dell’egemonia “culturale” stava a significare, in soldoni, che, per fare la rivoluzione, non bastava affidarsi al materialismo dialettico né alla visione del partito come avanguardia militarizzata del popolo (Lenin), ma che occorresse qualcosa di più: la conquista dei centri di produzione culturale. Cambiare i pensieri dei ceti colti italiani significa in sostanza cambiare la storia. E qui interviene Gentile, con la tesi del pensiero come “atto” dello spirito. Per Gentile, in sostanza, anche il pensiero era azione. Era, quella, una potentissima filosofia della prassi. Vale la pena notare che la prima opera di Gentile fu dedicata a Marx come filosofo. Il cerchio (del pensiero italiano) si chiude così. Ne hanno da leggere libri, gli spin doctor di Renzi, prima di confezionare per il loro “capo”, un progetto di egemonia culturale degno di tale nome.
Rileggere Marx in chiave sovranista
Sempre a proposito di “pensiero della sintesi”, si potrebbe oggi approfittare del vento favorevole ai principii del “populismo” per rileggere la critica marxista del capitalismo in chiave sovranista. È stato proprio Marx, nel suo “manifesto” 1848, a intuire che il capitalismo non si sarebbe accontentato di fare affari in ambito nazionale, ma che avrebbe comunque cercato di superare e poi di abbattere le frontiere. Fu proprio lui a capire per primo la dinamica del globalismo che mortifica gli Stati e li riduce a semplice apparato di servizio del capitalismo e della grande borghesia. La differenza fondamentale è che Marx non credeva nello Stato. Per l’idea sovranista (ma, ancor prima, per Gentile) lo Stato nazionale è invece un principio fondamentale, un’idea-cardine. Però risalire a Marx è cruciale per intendere la natura globalista del capitalismo. La nuova sintesi, la nuova “egemonia”, se mai nascerà, non potrà che essere rivoluzionaria. Altro che moderatismo in salsa renziana. Una “egemonia”, dopo la Prima repubblica, s’è in realtà affermata in Italia: quella del pensiero unico di marca liberal-liberista. Ma non aveva nulla a che vedere con il pensiero italiano, essendo stata partorita nei laboratori anglosassoni al fine di abbattere l’idea di Stato sociale europeo. Le propaggini di questa ideologia arrivano fino all’antipolitica di Grillo e Casaleggio. Oggi questa egemonia s’è però esaurita: sopravvive solo nell’establishment europeo e occidentale, ma è separata, anche fisicamente, dalla società, come sarà plasticamente rappresentato sabato 25 marzo, con la celebrazione blindata dei 60 anni del Trattato di Roma. Ecco perché è importante riannodare i fili di un pensiero nazionale.