Carminati, si riparla del vecchio colpo al “caveau” di Piazzale Clodio
Al lettore che si assicura fiducioso l’ultimo libro di Lirio Abbate non resta che esclamare: «Finalmente!». Finalmente cosa? Beh, è chiaro: al termine dell’agile lettura, chiunque potrà scoprire i misteri della clamorosa rapina consumata la notte tra 16 e 17 luglio 1999, quando una banda di «pluricollaudati esperti del crimine» – definizione dell’autore – riuscì a introdursi nel caveau della banca ospitata all’interno della cittadella giudiziaria di Roma, aprendo 147 cassette di sicurezza, diverse delle quali affittate da magistrati della Capitale. Inoltre, lo speranzoso lettore potrà, grazie al «giornalismo investigativo» dell’Abbate, scoprire chi compilò la lista indicante le cassette di sicurezza piene di documenti scottanti e capire quanti e quali processi furono aggiustati grazie a questo furto e quante e quali protezioni si sia garantito l’ex-Nar Carminati in virtù del materiale acquisito con la rapina. Purtroppo, però, sotto il tanto – oltre 200 pagine – si maschera solo il nulla: leggendo attentamente i 10 capitoli del volume della Rizzoli, è disarmante prendere atto come Abbate non dimostri assolutamente niente. Non uno dei giudici citati è segnalato come titolare, all’epoca, d’inchieste scottanti su Carminati o su chissà quale altro “potere occulto”. Abbate non cita neanche una sentenza su cui possa gravare il sospetto di essere stata “aggiustata” per compiacere qualche “sodalizio criminale”. In maniera non sorprendente, i giudici su cui l’autore sofferma maggiormente l’attenzione sono morti da tempo, Domenico Sica e Claudio Vitalone. E se Vitalone, nel ’99, era effettivamente implicato in uno dei grandi processi sul torbido passato della Repubblica – quello che coinvolse anche Giulio Andreotti per l’omicidio di Mino Pecorelli (e in cui era coinvolto anche Carminati) – il giornalista de L’Espresso è costretto desolatamente ad ammettere come proprio la sua cassetta nel caveau della banca del tribunale fosse stata perquisita prima della rapina e posta sotto sequestro e, di conseguenza, sicuramente priva di materiale di un qualsiasi interesse per i magistrati. Di più: al termine della lettura, il lettore è costretto a prendere atto come la stessa esistenza della «Lista» sia del tutto dubbia. Arrestati e processati tutti gli autori del clamoroso colpo, i magistrati che emisero la sentenza – forse condizionati dalla stampa che già all’epoca favoleggiò su questo misterioso foglio – si dovettero arrendere ad ammettere la mera «plausibilità» dell’ipotesi che sia esistita una lista delle cassette da aprire, sottolineando come, però, nessun indizio o prova concreti siano emersi dalle indagini. Peraltro, se una lista fu mai compilata per indirizzare gli autori del furto, la “talpa” non dev’essere stato più accurato di tanto, se costrinse i suoi complici ad aprirne, su 160 cassette, una quarantina del tutto vuote. Infine, il profilo criminale degli autori del colpo: a poche settimane dalla clamorosa irruzione, tutti gli esecutori e i loro complici furono catturati e a favorirne l’individuazione fu la goffaggine – su cui lo stesso Abbate è costretto a scrivere pagine su pagine – con cui si erano mossi prima e sopra a tutto dopo il colpo. Una “batteria” di “vecchi arnesi” del malaffare e un pugno di carabinieri cocainomani e corrotti: sarebbero mai potuto essere questi i «pluricolladauti» malavitosi a cui affidare – da parte di chissà chi – il «colpo del secolo»? Insomma, un libro inutile che, ripensando al titolo e al divario col contenuto, richiama simpaticamente la “truffa in commercio” che, per fortuna di tutti, in letteratura è un reato che non esiste; ma anche un libro che, curiosamente, insiste – a processi in corso e, quindi, a un passo dalla reale verità delle cose – su di una dimensione sovrastimata del profilo criminale di Carminati, la cui amplificazione, da tre anni a questa parte, sembra funzionale solo ed esclusivamente al ridimensionamento o al mascheramento dei ruoli e dei reati commessi dagli uomini del mondo della cooperazione romana impegnata nel settore dell’assistenza ai migranti. Perché è chiaro: senza un Carminati “re di Roma”, tutta la vicenda di “Mafia Capitale” si risolve – da innaturale connubio fascio-comunista – solo nella grande porcheria consumata da alcuni vasti settori collusi col Pd sulla pelle dei migranti a spese dei contribuenti italiani.