Quest’anno si celebra il 25 aprile postmoderno. Ed è più divisivo di prima
Il 25 aprile assume quest’anno i tratti inusuali della postmodernità. Abbandonati gli abiti consunti della retorica d’occasione, la festa della Liberazione targata 2017 è tutta interna ad una rilettura disincantata dell’esperienza storica, ormai sottratta – in perfetto stile postmoderno – ad ogni finalismo. Si sfarina il mito fondativo della Resistenza, dura, pura, unitaria e senza tempo. È il Pd l’artefice principale della “svolta”. Oggi il 25 aprile – parole di Matteo Orfini – «è un elemento di divisione». L’argomento, tipico della vulgata di destra, che ha sempre considerato la data un fattore discriminante, utilizzato da sinistra per stabilire che cos’è un’autentica e libera democrazia (per cui anche i più accaniti comunisti, grazie all’antifascismo, si sono fregiati – nel corso degli anni – della patente di democratici), viene ora utilizzato dal Pd a cui evidentemente il vecchio antifascismo non serve più. L’abbraccio con la sinistra più estrema sembra anzi imbarazzare i Dem, che non hanno ancora dimenticato lo strappo referendario, alimentato, tra gli altri, dall’Associazione Nazionale Partigiani, e guardano preoccupati alla presa di posizione della Comunità Ebraica, stufa di dovere sopportare le contestazioni delle frange filo palestinesi, durante le manifestazioni del 25 aprile. Fotografia esemplare di questo nuovo clima “resistenziale” l’articolo, su “il Venerdì di Repubblica”, di Enrico Deaglio, il quale parla di un clima segnato da piccoli rancori ed enormi grettezze, degna conclusione “di una storia piuttosto tumultuosa e inaspettata, che dura da 72 anni”.
Settantadue anni durante i quali l’appuntamento resistenziale ha assunto via via i tratti della retorica d’occasione, si è confuso con la lotta – tutt’altro che “democratica” alla prova dei fatti – dei vietcong, è servito, nella stagione del compromesso storico, a giustificare l’entrata del Pci nella “stanza dei bottoni”, ha perfino visto Silvio Berlusconi, nella Onna terremotata, indossare un fazzoletto da partigiano, che però non lo ha salvato dall’accanimento degli avversari. Esemplare la conclusione di Deaglio: “ … per fortuna il 25 aprile è un ponte”.
È l’archiviazione definitiva di una festa che, dopo aver avuto tanti significati, ora non sembra averne più alcuno, preso atto che – come scriveva quarant’anni fa un comunista doc, Giorgio Amendola – sia il fascismo che l’antifascismo sono stati blocchi di diversa composizione e quindi non possono essere considerati come categorie fisse. A questo punto l’invito di fondo è di confrontarsi finalmente con la complessità e la disorganicità di una festa fatta a pezzi dalle sue intime contraddizioni (in quanto espressione di una “parte” del Paese e della realtà civile), fattore divisivo anche all’interno di quella sinistra che l’aveva utilizzata quale testa d’ariete per garantirsi una patente di democraticità (laddove – per dirla con Renzo De Felice – non tutti gli antifascisti erano democratici).
Siamo ormai all’evocata postmodernità (la fine di ogni finalismo) applicata ad una data che si voleva “unitaria” e che invece non appare in grado di abbracciare – alla prova dei fatti e dei tempi – latitudini, culture, esperienze culturali ed umane diverse tra loro, mentre ad “unire” resta l’idea di una festa qualunque, da utilizzare per una scampagnata o per una fuga nell’outlet sempre aperto, tutti soddisfati per un “ponte” strappato alla routine quotidiana.