Al funerale di Almirante c’era anche un ex partigiano rosso: mio padre

25 Mag 2017 14:31 - di Antonio Pannullo

Si teneva 29 anni fa, il 24 maggio, il commosso saluto dei missini a Pino Romualdi e Giorgio Almirante, in una piazza Navona gremita all’inverosimile, con seguaci dei due uomini politici venuti da tutta Italia e anche dall’estero. Ricordo benissimo quei giorni: al Secolo d’Italia, dove già lavoravo, eravamo sotto pressione da settimane, da quando Almirante si era ammalato. Ci alternavamo a fare i turni davanti la clinica romana dove era ricoverato. Dovemmo poi fare due edizioni straordinarie per Romualdi e il giorno dopo per Almirante. E poi venne il giorno dei funerali. Ricordo che Francesco Storace, distrutto, in forza allora al servizio politico, aveva già chiarito che avrebbe preso un giorno di ferie per poter partecipare alle esequie. Così noi redattori non inviati alla cerimonia per servizio, a turno, andammo a piazza Navona per prendere parte almeno per qualche decina di minuti a un evento non solo storico ma che faceva parte della nostra storia umana e politica. Andai anch’io, per una mezz’ora, e poi tornai nella “storica” redazione di via Milano.

Il giorno dopo, però, il mio migliore amico, Augusto, mi telefonò e mi disse che era andato anche lui a piazza Navona (ma non ci eravamo incontrati) e disse: “Indovina un po’ chi ho visto?” . “Non lo so”, risposi, “chi?”. “Tuo padre!”, mi disse lui, ben sapendo che mio padre non aveva mai fatto politica in tutta la sua vita. “Ah, dissi io, strano…”. “Ma non sai tutto”, insisté Augusto, “non lo sai che ha fatto quando è passata la bara… il saluto romano!”. La cosa mi parve impossibile, perché mio padre non era certo fascista, al massimo liberale, e poi dopo l’8 settembre aveva fatto parte dei partigiani garibaldini. Ma Augusto non sbagliava, me lo confermò poi anche un attivista di via Sommacampagna, la sede provinciale del Fronte della Gioventù. La cosa era inspiegabile, per questo ho pensato che fosse il momento di raccontarla.

Il fascismo, la guerra, la resistenza, la pace

Classe 1914, come Almirante, mio padre era cresciuto durante il fascismo, e andava a anche a sentire, ragazzo, i discorsi di Mussolini a piazza Venezia. Nel 1934 entrò nell’accademia allievi ufficiali medici di Firenze, vicino Ponte Vecchio, accademia non più esistente, e quandò si laureò, nel 1940, fu spedito immediatamente al fronte. Combatté in Albania e Montenegro con la Divisione Perugia. Ma dopo l’8 settembre, i tedeschi fucilarono tutti gli ufficiali della Perugia, tranne mio padre e un altro medico. Circostanza riportata in due libri, Tempesta sulle alpi albanesi e Sacrificio italiano in terra albanese. Fu portato dai tedeschi in Germania e poi in Nord Italia. Ma mio padre scappò, perché non voleva stare coi tedeschi e si rifugiò in Piemonte, dove entrò in un reparto partigiano che operava nell’Oltrepo pavese, con cui rimase due anni. Non raccontò mai molto di quel periodo, e in ogni caso mai di atrocità né partigiane né delle Camicie Nere. Ricordava invece con terrore quelli che definiva i “rastrellamenti” dei tedeschi, dai quali i partigiani erano riusciti a scampare più volte per miracolo. Tornato a casa, al quartiere Prati di Roma, mio padre iniziò la professione di medico, forte anche dell’esperienza che aveva fatto in cinque anni di guerra. Non so se votò, e cosa, al referendum, ma so che dal 1950 in poi votò sempre Partito Liberale, anche perché suo padre, alto magistrato, era diventato senatore di quel partito. Ostacolava, ma come un padre, non politicamente, la mia attività nel Movimento Sociale, e certo non assisté mai a un comizio missino né mise mai piede in una sezione. Ancora oggi non so perché fece quel gesto: per me? Per stima verso Almirante? Perché i vincitori lo avevano deluso? Non lo so e non lo saprò mai, anche perché lui non me lo disse. E io non glielo chiesi.

Teneva un diario di quel periodo, dal 1943 al 1944, che descrive proprio lo sbandamento dopo la fuga del Re, le fucilazioni, la fuga. Una volta il direttore del Secolo, Aldo Giorleo, valoroso parà della Nembo della Repubblica Sociale, mi chiese di poterlo leggere. Lo chiesi a mio padre, allora ancora vivente, e glielo portai. Giorleo lo lesse con grandissimo interesse per diversi giorni, e dopo aver lodato lo stile “letterario” di mio padre, mi disse ridendo: “Pensa un po’ se lo incontravo che gli facevo!”.

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