Cercasi movimento sociale per dare gambe alla dottrina della Chiesa
Le puntualizzazioni in tema di dottrina sociale, fatte da papa Francesco, durante il suo recente incontro, a Genova, con i lavoratori dell’Ilva, se da un lato hanno offerto l’occasione per ricapitolare gli orientamenti dell’attuale Pontefice sulle grandi questioni del lavoro, dell’impresa, dell’economia “senza volto”, della competizione, dall’altro hanno evidenziato la sostanziale debolezza del mondo cattolico, incapace di trasformare le parole del Papa in strumenti di mobilitazione politico-sociale.
Mentre Bergoglio punta ad attualizzare, in un mondo in continuo cambiamento, la visione della Chiesa, suscitando attenzione ed “emozioni”, all’associazionismo, alla cultura accademica, all’informazione di estrazione cattolica sembra mancare la volontà di passare dalle affermazioni dottrinarie alla prassi, dalle idee alle proposte operative, dai valori all’impegno riformatore. Eppure basterebbe metodologicamente guardare al passato per cogliere più di qualche spunto “operativo”.
C’è stato un tempo in cui i Pontefici non limitavano alle sole indicazioni dottrinarie la visione sociale della Chiesa, ma le sostenevano con proposte organiche e conseguenti. A partire dall’azione dell’associazionismo cattolico per arrivare al più ampio impianto istituzionale, attraverso l’idea partecipativa, la cogestione, il corporativismo. Su questi crinali la Chiesa fu sempre chiara, come testimoniano le diverse encicliche sociali. Esemplare – da questo punto di vista quanto scrisse, nel 1931, Pio XI, nella “Quadragesimo Anno”: “Le corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni nella medesima area e professione, e come veri e propri organi ed istituzioni dello Stato, dirigono e coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune. Lo sciopero è vietato; se le parti non si possono accordare, interviene il Magistrato. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell’ordinamento per quanto sommariamente indicato: la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialistici, l’azione moderatrice di una speciale magistratura”.
Poi, a partire dagli Anni Sessanta del ‘900, il collegamento tra dottrina e capacità propositiva venne sfilacciandosi. Più che a fissare un “modello sociale” la Chiesa sembrò orientata a creare aspettative, nella convinzione – scriveva allora Bartolomeo Sorge – che, di fronte alla distruzione d’un sistema di valori unico, provocata dalla rivoluzione industriale, “ciò che rende anacronistica tra i gruppi una coesione interna di tipo corporativo è soprattutto il pluralismo ideologico che sta alla base del pluralismo istituzionale contemporaneo”.
A prevalere fu una generica idea sociale, che lasciava non pochi spazi ad un marxismo allora debordante, conflittuale e classista, sguarnendo sul piano politico-sociale il mondo cattolico.
Gli stessi approfondimenti teorici, che un tempo vedevano in prima fila una vera e propria “scuola cattolica”, a base anticlassista e partecipativa, vennero meno.
Come ha puntualizzato Papa Bergoglio e come confermano le diverse Encicliche sociali gli elementi per un nuovo protagonismo cattolico sul fronte del lavoro e delle imprese oggi ci sono tutti. Il problema è che denunciare ed enunciare non basta. Occorre passare dalle parole ai fatti, costruendo intorno al nucleo forte dei principi adeguate politiche sociali ed organiche proposte ricostruttive, secondo l’idea – che fu di Giuseppe Toniolo, figura esemplare di intellettuale cattolico, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo – in grado di realizzare una convergenza tra struttura sociale ed impianto statale, sia a livello territoriale che “di classe”, con un richiamo alle persone reali, viventi nelle categorie produttive, nelle famiglie, negli enti locali. Più concretezza insomma per evitare che i principi si trasformino in meri esercizi intellettuali. Le categorie produttive, le famiglie, le realtà locali non aspettano altro.