Il Pg Sergio Lari: così Falcone fu delegittimato dalle istituzioni
Ci voleva Sergio Lari, ex-procuratore di Palermo, amico e collega di Falcone e oggi Procuratore generale di Caltannissetta, per ricordare i tempi in cui la sinistra sparava ad alzo zero contro il magistrato simbolo della lotta alla mafia che, poi, lo ammazzerà. Lo chiamavano, irridendolo, lo “Sceriffo“. Ed era un modo di delegitimralo e di isolarlo anche quello. Falcone morirà per mano mafiosa a Capaci il 23 maggio 1992. Ma c’era già chi, molto prima, aveva preparato e spianato la strada ai killer emarginando Giovanni Falcone.
Negli anni Ottanta, quando lo Stato avviò la guerra contro Cosa nostra culminata con il maxiprocesso che vide alla sbarra centinaia tra boss e gregari, “all’interno delle istituzioni c’era chi definiva Giovanni Falcone uno “sceriffo”. Perché aveva avuto un nuovo approccio investigativo che stava portando grandi risultati”, denuncia ora Sergio Lari che, a 25 anni di distanza dalla strage di Capaci, ricorda proprio il periodo precedente all’uccisione del suo collega, della moglie Francesca Morvillo e di tre agenti di scorta.
Raccontando a una platea di studenti all’Università di Palermo la lotta alla mafia 25 anni dopo le stragi, Lari ricorda anche come Falcone “fu delegittimato anche dal mondo delle istituzioni”, ricordando il suo “rapporto tormentato con le istituzioni”.
Inevitabilmente, Sergio Lari racconta anche delle “nuove e complesse indagini” avviate sulle stragi mafiose, dopo le dichiarazioni choc del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che ha fatto riaprire il processo facendo scarcerare sette persone che erano state ingiustamente condannate all’ergastolo.
“Mi sono dovuto cimentare, a distanza di sedici anni, su nuove indagini – spiega Lari agli studenti – sembra una storia quasi romanzata, ma è la realtà”.
“Mi ero insediato da Procuratore capo di Caltanissetta il 10 aprile 2008 e tutto avrei immaginato fuorché a distanza di tre mesi mi sarei trovato sulla mia scrivania i colloqui investigativi di Gaspare Spatuzza, uomo d’onore di Cosa nostra, già reggente di Brancaccio. Il collaboratore confessò di avere ucciso una quarantina di persone e di avere partecipato a tutta la campagna stragista di Cosa nostra iniziata il 23 maggio del ’92 e terminata nel ’94 con il fallito attentato all’Olimpico di Roma, che avrebbe provocato la morte di duecento carabinieri. Attentato che per fortuna fu evitato”.
“Lo scenario era allarmante – dice ancora Sergio Lari – Si aprivano piste inedite sulla strage del ’92 che facevano emergere il protagonismo del mandamento di Brancaccio. Non venivano messe in discussione le 37 condanne all’ergastolo per i capi i Cosa nostra, viceversa la confessione di Spatuzza riguardante un importante segmento esecutivo della strage di via d’Amelio, come il furto dell’autovettura, delle targhe da una macchina rubata e poi imbottita di esplosivo, tutto questo metteva in discussione le dichiarazioni che erano state rese nel processo Borsellino da 4 collaboratori come Candura, Scarantino, Pulci e Andriotta. Dichiarazioni che avevano portato alla condanna di undici persone, di cui sette all’ergastolo e lo stesso Vincenzo Scarantino a 18 anni di carcere.
“Si profilava, sul piano investigativo uno sforzo enorme – ricorda ancora Sergio Lari – significava recuperare in quella massa di processi le tessere false che qualcuno aveva inserito e trovare contemporaneamente le tessere mancanti, un’indagine che andava condotta su un doppio binario”. E ricorda che la prima cosa da fare era quella di “fare scarcerare le persone ingiustamente condannate”.
“Questo era il quadro che la mia Procura ha dovuto affrontare – dice ancora Lari – Ovviamente, quando si sente un collaboratore di giustizia, si pensa che si siede davanti a noi e ci fa un quadro totale della situazione, in realtà ha una visione molto parcellizzata, non ha una visione dell’insieme”.
“Ma come siamo arrivati alla stagione delle stragi? – rivela ancora il Procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari – Secondo la ricostruzione del mio ufficio per arrivare alla stagione delle stragi bisogna partire dalla guerra di mafia scoppiata negli anni Ottanta nel palermitano. I corleonesi di Riina non tolleravano più che la vecchia mafia degli Inzerillo e dei Bontade avessero il monopolio del traffico di droga. Quindi, Riina infiltrò le famiglie mafiose con uomini di sua fiducia, scatenando una guerra che in tre anni causò oltre mille morti in tutta la provincia di Palermo. Ricordo 18 omicidi in un solo giorno“. Ma la guerra di mafia di quegli anni “funse anche da detonatore per uccidere anche uomini delle istituzioni che tentavano di frenare quanto stava accadendo”.
“Decapitando i vertici delle istituzioni che lottavano contro i boss bisognava tutelare l’organizzazione mafiosa da possibili investigazioni che potessero incidere su Cosa nostra“. E Falcone iniziò ad avere un ruolo importante. “I risultati del nuovo approccio investigativo si iniziarono a vedere – dice Sergio Lari – soprattutto con il primo maxiprocesso che si concluse con la condanna delle famiglie più importanti”.