20 anni fa moriva Fede Arnaud. Comandò le ragazze della Decima. Un ricordo personale
Vent’anni fa, l’8 luglio del 1997, se ne andava da questo mondo Fede Arnaud Pocek, leggendaria comandante delle 250 ragazze della Decima di Junio Valerio Borghese. Era nata a Venezia, città di esteti e di sognatori. Nella sua vita un pizzico di leggenda c’è in effetti stato: lei, una delle schiere dei vinti, una credente nel fascismo costretta a vedere crollare i suoi sogni, seppe risorgere dalle ceneri di una guerra rovinosa come una fenice.
Si affermò infatti nel dopoguerra come numero uno nel campo del doppiaggio: la sua firma è apparsa nei titoli di coda di film che hanno fatto epoca: da E.T. a L’Attimo fuggente, da Easy Rider ai film di Woody Allen.
Ebbi modo di conoscerla una volta perché venne alla Libreria Europa di Enzo Cipriano (in via Cavallini a Roma) con altre due ausiliarie (una era Raffaella Duelli, dell’altra non ricordo il nome) per incontrare un giornalista del quotidiano La Stampa, Mauro Anselmo. Doveva scrivere un pezzo su un’iniziativa culturale cui Pino Rauti, all’epoca segretario del Msi, aveva dato il suo imprimatur. Aveva infatti firmato la prefazione di una raccolta di saggi del Centro Studi Futura, Gli angeli e la rivoluzione (Settimo Sigillo) nei quali si parlava di donne e fascismo. Il giornalista voleva mettere insieme le vecchie fasciste e le nuove missine rautiane e combinò l’incontro alla libreria. Ne venne fuori una paginata, intitolata “Tutte casa e manganello” (La Stampa, 29 novembre 1991).
La signora Fede Arnaud Pocek era una donna elegantissima e di grande fascino, alta e carismatica. Ricordo che il giornalista ne fu letteralmente soggiogato. Tutte e tre le signore convenute all’insolito meeting tra reduci e militanti parlavano con avvincente levità della loro esperienza in guerra, e con dolcezza ripetevano che era impossibile non avere fatto le loro stesse scelte: c’era stato il tradimento, e bisognava ricostruire la Patria. Ciò che dicemmo noi del Centro Studi Futura passò ovviamente in secondo piano, com’è giusto che sia quando la storia si sovrappone alla cronaca politica.
Ricordo un filino di perplessità nelle tre signore quando cercammo di spiegare che il fascismo in fondo era stato un po’ femminista. Non ci incontrammo su questo argomento, ma loro ci lasciarono dire, ritenendo quel nostro discorrere una sorta di pegno da pagare all’attenzione della stampa nemica. A loro interessava difendere le loro speranze giovanili, le loro passioni, il Duce, il loro modo di servire l’Italia. Erano disinteressate al Msi e alle sue prospettive. Noi, più ideologiche e indottrinate, volevamo dimostrare che il fascismo aveva offerto alle donne una terza via oltre la clausura domestica e il marxismo classista.
Che posto avevano le ausiliarie e le comandanti come Fede Arnaud Pocek nel risicato pantheon femminile in cui mettevamo Ines Donati, Margherita Sarfatti e le futuriste? Non ci eravamo poste il problema, perché loro facevano parte di quel mondo di reduci che conviveva nel Msi con i giovani. Erano come le zie immancabili al pranzo di Natale. Figure familiari e non ancora storiche. Per vederle come personaggi storici occorreva più tempo. E il tempo ci regalò, otto anni dopo, il bel libro di Ulderico Munzi, Donne di Salò. Fu una soddisfazione presentarlo nella sede della Provincia di Roma, presieduta all’epoca da un ex missino ed ex rautiano, Silvano Moffa. Nell’introduzione al libro Munzi riporta un’espressione di Edda Ciano a proposito delle donne soldato degli ultimi seicento giorni di Benito Mussolini, “femminismo fascista”. Possibile? Possibile.
“La contessa – scrive Munzi a proposito di Edda Ciano, incontrata a casa di Domenico Tozzi, pioniere dell’aviazione italiana in Africa – era riservata, riluttante, talora ombrosa. Ogni due mesi, alle cene nell’attico di una palazzina di via Roccaraso, in cima a uno dei colli romani, partecipava un mondo variegato e moderatamente nostalgico. C’è anche un’eleganza nel rievocare il passato. Accompagnata sovente dalla figlia Dindina, Edda era inevitabilmente al centro degli sguardi. Non si può dire che fosse spiata. L’attenzione era discreta e rispettosa. Però si coglieva, in certe persone, un misto di venerazione e d’invidia. Edda aveva vissuta lo tragedia, anzi era la tragedia”. E alla tragedia bisogna prestare ascolto. Quando Edda parlò delle ausiliarie disse che le ausiliarie avevano avuto la loro grande occasione: il fascismo non più proprietà dei maschi, la Patria difesa non solo dai maschi. Ragazzine, volontarie, innocenti. E, a modo loro, femministe nere.