Addio a Enzo Bettiza, l’intelligenza e la coerenza di un anticomunista
Giulia Maria Crespi, editore del Corriere della Sera ai tempi dell’eskimo in redazione, «non capiva nulla» di strategie politico-editoriali. «L’entourage di cui si circondava, col suo sinistrismo festaiolo, ha avuto una parte di responsabilità nella diffusione degli impulsi autodistruttivi che dovevano percorrere la società italiana dopo la vacanza utopica del 1968». Fino alla fine, avvenuta oggi all’età di 90 anni, Enzo Bettiza non ha mai risparmiato giudizi taglienti sui protagonisti dello sbandamento a sinistra della borghesia italiana degli Anni Settanta. Non c’erano per lui né giustificazioni né tantomeno ragioni alla fascinazione per il Pci di Berlinguer che colpì la classe dirigente e buona parte della cultura del nostro Paese per più di un decennio.
Enzo Bettiza era entrato al Corriere della Sera nel 1964, con le ferite nell’anima prodotte dall’esilio dalla sua Spalato, che la sua famiglia fu costretta ad abbandonare dopo l’arrivo dei comunisti titini. La svolta a sinistra del quotidiano di via Solferino, coincisa con l’arrivo nel 1972 di Piero Ottone alla direzione, non la poteva né capire né accettare. E se ne andò, insieme a Montanelli e ad altre prestigiose firme del Corriere, a fondare un nuovo quotidiano, Il Giornale nuovo.
Per Bettiza l’anticomunismo non era solo un fatto di cuore e di viscere, ma di testa. E di testa finissima. Non si limitava a denunciare gli errori e gli orrori del blocco sovietico nei suoi reportage. Del comunismo, studiava anche i meccanismi, smascherava l’inganno ideologico, denunciava l’effetto antropologicamente corruttivo attraverso libri acuti e profondi, scritti nell’arco di più di un cinquantennio. Così definì Lenin: «Un ominide meccanico, duro, opaco, capace di esistere unicamente e interamente nel presente socialista, privo di memoria, di dubbi, di rimorsi». La lucidità intellettuale, unita alla conoscenza che aveva del sistema di potere comunista, portò Bettiza a diffidare anche di Gorbaciov, del quale preconizzò, tra i primi, il fallimento: non era possibile, secondo lui, conciliare comunismo e democrazia, collettivismo ed efficienza. La Perestrojka non era che un colossale abbaglio, una immensa bolla propagandistica che sarebbe scoppiata nel giro di qualche anno, come poi effettivamente avvenne.
Le strade tra Bettiza e Montanelli si separarono quando, negli anni Ottanta, l’intellettuale di Spalato cominciò a guardare con interesse all’esperienza di Craxi, al quale riconosceva un spiccata vocazione anticomunista. Il grande Indro, al contrario, diffidava del leader socialista. Fu così che Bettiza lasciò Il Giornale per diventare editorialista de La Stampa. Ma la sua capacità di demistificare gli inganni dell’ideologismo non venne mai meno. Ed è per questo che rimane un grande maestro di libertà, libertà politica, umana e intellettuale.