Ma un candidato premier non si sceglie dall’annuario di Confindustria
Sui programmi e sulle etichette è inutile baloccarsi più di tanto. Il centrodestra è unito e con le idee chiare perché così vuole il suo elettorato che delle distinzioni tra moderati, liberali e populisti non sa che farsene. Come hanno dimostrato le recenti elezioni amministrative, elezioni – non dimentichiamolo – che, una volta, sarebbero state uno scoglio difficile per il centrodestra, più abituato alle battaglie politiche “generaliste” che al confronto sul territorio, gli elettori hanno accettato la sfida del cambiamento, voltando le spalle al centrosinistra, renziano o meno. Temi locali e temi di portata nazionale si sono sovrapposti, segno del valore politico della sfida in atto. Stupisce – con queste premesse – che Silvio Berlusconi abbia lanciato, a freddo, l’ennesimo nome-civetta, Sergio Marchionne, quale candidato premier del centrodestra. Stupisce per il nome, non proprio amato dagli italiani, che gli addebitano la fuga all’estero del Gruppo Fiat e gli ammiccamenti filorenziani, negli anni del consenso, oggi tramontato, verso il Segretario del Pd. Del resto Marchionne pensa ad altro ed infatti ha subito smentito una sua “discesa in campo”. Mai in politica – ha detto. Tema chiuso. A restare aperta però è la questione sul metodo con cui il Cavaliere ha fatto questo nome e quelli proposti in passato. È lunga infatti la lista dei “delfini”, subito gettati nella Geenna berlusconiana dopo essere stati prescelti come successori. Tra gli ultimi Stefano Parisi, bruciato perché considerato troppo antileghista. Ma prima di lui Giovanni Toti, accusato invece di eccessi filosalviniani. Ed ancora Mario Draghi, presidente della Bce, inviso a due terzi dell’elettorato di centrodestra che lo considera espressione dei “poteri forti”. E poi Antonino Alfano, liquidato perché privo di “un quid”, Raffaele Fitto, marchiato come “prete democristiano”, Franco Frattini, Mauro Pili (il sardo scelto perché piaceva alle signore), Pierferdinando Casini, Mario Monti (a cui Berlusconi garantiva un passo indietro se si fosse messo alla testa dei “moderati”), Gianpiero Samorì, finito sotto inchiesta per associazione a delinquere transnazionale, il romano Alfio Marchini, imposto e “bruciato” alle elezioni di Roma del 2015. Ad unire tutti questi nomi l’idea berlusconiana di poter fare e disfare il centrodestra a piacimento, senza la condivisione degli alleati di Forza Italia e soprattutto senza l’individuazione di un metodo di selezione della leadership, capace di garantire la massima partecipazione dei cittadini-elettori e il consenso di fondo di Lega e Fratelli d’Italia. Su questo il popolo del centrodestra chiede orientamenti chiari. Una soluzione potrebbero essere le mitiche “primarie”, più volte sbandierate a destra, ma mai realizzate. Come seconda istanza si potrebbe tornare al vecchio sistema, diffuso durante la Prima Repubblica, del leader espressione della coalizione ad elezioni avvenute. Del resto la nomina del presidente del Consiglio rimane prerogativa del presidente della Repubblica, con modalità e discrezionalità estremamente vaghe. Diciamo che ormai nel sentire collettivo è diffusa l’abitudine a collegare ogni proposta di governo ad un leader, malgrado – di fatto – come abbiamo visto nell’ultimo quinquennio le indicazioni della vigilia vengano poi ribaltate dalle contingenze politiche (significativa è la vicenda di Pier Luigi Bersani, designato premier della coalizione di centrosinistra, nel 2013, costretto a passare la mano a Enrico Letta, a sua volta “dimissionato” da Matteo Renzi, che ha lasciato la guida del governo a Paolo Gentiloni a seguito del risultato referendario). Realisticamente la sfida all’interno del centrodestra potrebbe passare attraverso il risultato elettorale dei diversi partiti che lo compongono e la scelta collegiale dei rispettivi leader politici. Quello che – in premessa – gli elettori chiedono è comunque una chiara indicazione da parte dei vari partiti. Chi vuole fare il premier, per il centrodestra, lo dichiari espressamente e chieda fiducia su chiari indirizzi programmatici. Perché – oltre al metodo di scelta – occorre che il candidato premier sia in grado di incarnare nell’immaginario collettivo, nel linguaggio, nel rapporto con la realtà il programma condiviso della coalizione. Deve essere insomma un uomo o una donna “di sintesi”, capace di trasmettere idee ed emozioni in cui riconoscersi. Qualcosa di più e di meglio rispetto ad un bel nome pescato nell’annuario di Confindustria o tra gli iscritti del Rotary. Tanto vale allora estrarlo tra una rosa di designati. In fondo la fortuna arride agli audaci. Ma non basta a fare buona politica.