Stime sul Pil? La vera sfida è rimettere in moto l'”ascensore” sociale
Perché, malgrado le stime al rialzo del Pil, diffuse dalla Banca d’Italia, gli italiani confermano il loro sostanziale pessimismo sul nostro destino economico ? Secondo un recente sondaggio di IPR Marketing, pubblicato da “il Resto del Carlino”, la stima del futuro non migliora le aspettative. Il 42% degli intervistati pensa che il 2017 sarà peggiore per la propria famiglia rispetto al 2016, solo il 20% pensa che potrà essere migliore mentre un ulteriore 30% non si attende cambiamenti sostanziali.
Che cosa si nasconde dietro questo persistente disincanto nazionale ? Al di là dei dati reali, che disegnano un quadro in controtendenza rispetto alle stime della Banca d’Italia ed al trionfalismo del governo, quello che sembra ormai mancare – da diversi anni – nell’immaginario degli italiani è la speranza di una crescita condivisa e quindi di un miglioramento complessivo dei loro livelli economico-sociali. Forse cresce il Pil, ma per ciascuno la percezione è tutt’altro che positiva.
La crisi economica permane, mentre quella sociale offre l’immagine di un Paese in cui il cosiddetto “ascensore sociale” è bloccato e ad emergere è una disuguaglianza acuta nel grado di mobilità verso l’alto all’interno del Paese: con un Nord-Est ricco di opportunità, mentre nel Sud le condizioni sociali tendono a rimanere invariate tra generazioni. Basti considerare che la probabilità di passare dal segmento più basso della distribuzione del reddito a quello più alto è pari al 25% per i figli cresciuti a Milano e solo 5% per quelli cresciuti a Palermo.
Secondo il rapporto “And Yet, It Moves: Intergenerational Economic Mobility in Italy” per ogni 100 figli nati da genitori nella porzione più alta della distribuzione del reddito (genitori con un reddito superiore ai 50.000 euro), almeno 35 manterranno da adulti la posizione raggiunta dai genitori. Al contrario, su 100 figli con genitori nella sezione più bassa della distribuzione del reddito (vale a dire con genitori che guadagnano meno di 15.000 euro), all’incirca 10 raggiungeranno, una volta adulti, il segmento più alto.
È la fotografia di un Paese che tende all’immobilismo sociale e quindi raffredda le aspettative e le ambizioni della società, frustrando l’accessibilità alle varie posizioni sociali, attraverso una serie di vincoli strutturali, riconducibili all’autoreferenzialità dei diversi gruppi professionali, alla cooptazione delle classi dirigenti, ad un sostanziale rigidità dei cosiddetti “processi ascensionali”. Ecco che allora le possibili stime sulla crescita economica rimangono fini a se stesse, nella misura in cui in cui non incidono sul grado di accessibilità a più alte posizioni sociali, non favoriscono l’innalzamento dello status del lavoratore, non alimentano una positiva dinamicità intergenerazionale.
Su questo, anche su questo, un Paese che vuole essere capace di affrontare e vincere le sfide della modernizzazione, dovrebbe interrogarsi. Senza una nuova dinamicità sociale, è la stagnazione a vincere, una stagnazione ben più grave di quella produttiva.
Da qui, anche da qui, è urgente partire, intervenendo sui processi di selezione, tornando finalmente ad investire sul merito, contro un egalitarismo fasullo, puntando sulla qualità della scuola, contro il
livellamento dei discenti, sostenendo le famiglie, contro la sterilizzazione demografica. Al fondo la consapevolezza che qualche punto percentuale di Pil non risolve i problemi, se poi non si investe per favorite quella mobilità interna, capace di creare nuova ricchezza reale e aspettative vere in un Paese altrimenti destinato ad un cronico immobilismo.