Dieci anni dopo il Vaffa day quanto sono rimasti grillini i Cinquestelle?
Come tutti gli anniversari che si rispettano, anche il decennale del Vaffa day (lanciato a Bologna da Beppe Grillo l’8 settembre del 2007) ha i suoi esegeti e i suoi apologeti. Tra questi ultimi Marco Travaglio, che celebra la ricorrenza con una paginata sul Fatto Quotidiano. I “vaffa” risonanti nella piazza grillina, secondo lui, hanno prodotto effetti benefici: tra questi la legge Severino e i tagli alla casta. E poi basta perché altre realizzazioni del Movimento non ce ne sono state, a parte un’innumerevole serie di gaffe e di brutte figure nei municipi amministrati.
Ma come tutti gli anniversari, anche il decennale del Vaffa day pone degli interrogativi. E dunque quanto c’è ancora di grillino nel Movimento Cinquestelle? Se guardiamo alla forma c’è ancora molto: una certa tendenza ai toni sopra le righe, allo strillonaggio, all’insulto, all’attacco frontale all’avversario, al vittimismo, al sospetto, al complotto. Ma è solo un abito ormai logoro. Nella sostanza, invece, una profonda mutazione è avvenuta. Il Movimento si è trasformato da soggetto della democrazia di sorveglianza a soggetto della democrazia di rappresentanza.
Quando incarnava la prima di queste mission – la sorveglianza – il M5S risultava più credibile nella denuncia e anche nel rapporto con l’ondivago web, dovendosi limitare alle proteste (subito virali su internet) che agivano su un terreno già concimato da precedenti movimenti antisistema (pensiamo all’Uomo Qualunque, al Msi e alla prima Lega). Ma il passaggio alla seconda versione – la rappresentanza – se è stato clamoroso in termini di consensi è stato altrettanto deludente in termini di capacità operativa e adeguatezza politica, per non parlare dell’organizzazione del Movimento, con espulsioni a raffica dei dissidenti e decisioni imposte dal vertice che hanno snaturato quelle prese dalla base. Il deterioramento dello spirito della prima ora è apparso evidente anche nella divisione in correnti che ha avvelenato la formazione grillina non appena il vituperato Palazzo ha spalancato le porte ad eletti impreparati, provenienti da una cosiddetta “società civile” pregna di facili slogan e imbevuta di parole d’ordine demagogiche. A Roma le divisioni hanno accompagnato da subito la vittoria di Virginia Raggie e hanno via via deteriorato ogni potenzialità innovativa che la “sindaca” (votata anche dai delusi della destra e della sinistra) aveva in animo di incarnare.
La querelle su quanta destra o quanta sinistra siano presenti nel Movimento intanto si è arenata sugli scogli lessicali del populismo, l’immenso ed elastico paradigma sotto il quale albergano tutti i fenomeni che la politica classica non comprende, o non vuole comprendere o vuole demonizzare. Ora la consapevolezza generale è che il M5S sia entrato a far parte in grande stile del teatrino della politica, portandosi dietro tutti i difetti che sono tipici dei rivoluzionari mancati: rancore, manie di protagonismo, convinzione di essere sempre dalla parte del giusto, scarsissima propensione all’autocritica, semplificazione schematica di realtà complesse.
Questa mutazione tuttavia è più rassicurante rispetto al grillismo della prima ora (imprevedibile, non catalogabile, post-ideologico, non manovrabile) perché determina la stessa dialettica amico-nemico cui è da sempre abituato chi guarda al dibattito politico e non ama le sintesi. C’è il Pd e c’è il M5S. La dialettica tra i poli è sempre la stessa da sempre: basta dire no a tutto quello che dice l’avversario, accusarlo di incoerenza, di corruzione, di lontananza dalla gente che non arriva a fine mese ecc. ecc. ecc. La rinascita di un terzo polo a destra ha scompigliato lo schema, arrivando a procurare qualche brivido quando si è registrata un’uniformità di toni tra Lega e Cinquestelle su alcune questioni di fondo, come l’immigrazione. La sinistra ha reagito com’è consuetudine: la tirata antipopulista usata contro il M5S, il risuscitato rancore antifascista contro la destra.
Ma torniamo a Beppe Grillo, che è ormai più icona che protagonista. Si fanno avanti le nuove leve. Il duo Di Maio-Di Battista, i Dioscuri del Movimento. Chi dei due sarà il candidato premier non ha importanza, basta di loro quel sufficiente tasso di analfabetismo politico che li rende vicini al popolo che inneggia all’onestà-tà-tà. Quell’elettorato che vive dell’istante, che sia un selfie o un’invettiva sui social. Quelli che ogni mattina, appena alzati, hanno bisogno di sapere: con chi ce la prendiamo oggi?