La questione dei salari, un tema centrale per la ripresa economica
L’ex presidente del Consiglio, nell’annunciare l’approvazione dei decreti attuativi della riforma della Pubblica amministrazione, ebbe modo di sottolineare come “Stipendi Pa bloccati da 7 anni? Ingiusto. Più soldi per contratti, ma chi fa il furbo deve essere punito”. A tale dichiarazione, certamente propagandistica, è seguito un nulla di fatto per quasi un anno. Adesso, con Gentiloni, la prossima legge di Bilancio sulla quale il Governo lavorerà già dal prossimo autunno, dovrà trovare oltre miliardo di Euro per gli aumenti degli stipendi degli statali delle pubbliche amministrazioni centrali e, altrettanti, per gli enti territoriali e la sanità. Sembra, peraltro, scontato che lo sblocco dei contratti del pubblico impiego costituirà un volano per le richieste salariali del settore privato. Ci avviamo ad una rapida crescita del costo del lavoro, con conseguente perdita di competitività delle nostre imprese ed un effetto negativo in termini di crescita economica?
Cerchiamo di rispondere a tale questione. In realtà non mancano economisti che vedono con favore un aumento dei salari che rafforzerebbero a loro dire il potere d’acquisto delle classi più propense al consumo. A tal proposito, Henry Ford ebbe a scrivere: “Ci siamo risolti a pagare salari più alti per creare fondamenta solide su cui costruire l’azienda. Stavamo investendo sul futuro: un’impresa che paga salari bassi è sempre insicura. Cinque dollari per una giornata lavorativa di otto ore è stata una delle più efficaci strategie di riduzione dei costi che abbiamo mai messo in atto”. Assieme a Hobson, dunque, l’idea praticata da Ford, riassunta sinteticamente nella celebre frase riportata, mette a fuoco il lato debole della teoria classica per cui il mercato del lavoro è soggetto alla stessa regola di tutti gli altri mercati.
Seguendo la logica classica, ancora oggi per altro molto diffusa soprattutto nell’opinione pubblica, se salgono i salari, ovvero, se cresce il prezzo del lavoro, l’imprenditore dovrà chiedere di più per il suo prodotto, ma di fronte ad un aumento del prezzo del bene offerto, si determina una riduzione delle vendite, che contrae l’occupazione; ne segue, in definitiva, che la disoccupazione è un sinonimo sicuro di alto prezzo del salario e, che solo un adeguato taglio degli stessi permette di riassorbire la disoccupazione. Ma che qualche cosa non funzioni in questo modo di argomentare, lo dimostra il fatto che si può logicamente sostenere anche il contrario, infatti, la riduzione dei salari, riducendo il potere d’acquisto delle classi più povere, con più alta propensione al consumo, riduce le vendite dei beni e dei servizi. In definitiva, cioè, salari bassi comportano il ristagno del consumo e, dunque, un reddito nazionale basso. L’errore di fondo di tale idea sta, tuttavia, nella convinzione (sbagliata) che il reddito nazionale è dato dalla capacità produttiva, e che questa è assicurata al massimo, come prescrive la legge di Say.
Smascherati gli errori di entrambe le posizioni, dunque, si potrebbe sostenere che l’effetto positivo connesso all’aumento del potere d’acquisto e quello negativo dell’aumento dei costi del prodotto (conseguente all’aumentato costo del salario) si annullino a vicenda o, addirittura, ritenere che si possano calibrare aumenti di salario in modo tale da aumentare il potere d’acquisto senza rischiare che gli aumenti del costo di produzione si scarichino sui prezzi. Bene, se le cose stanno effettivamente in tale ultimo modo, le politiche salariali dovrebbero essere opportunamente calibrate.
Tale premessa, non è, come pure potrebbe sembrare, un mero dibattito accademico. Le statistiche dell’Istat, infatti, danno il PIL dell’Italia nel secondo trimestre in crescita dello 0,4 per cento rispetto al trimestre precedente e, dell’1,5 per cento, rispetto al secondo trimestre del 2016, un aumento, dunque, certamente superiore a quello stimato in precedenza, e che se confermate, porterebbero nel 2017 il PIL italiano a più dell’1,5. Di fronte a tale situazione, s’impone di scegliere se accompagnare o meno la crescita, dando stimoli all’economia del Paese, atteso comunque che la crescita resta (al di fuori di ogni dubbio) insufficiente, sia se paragonata ai principali concorrenti europei, sia ad assorbire la forte disoccupazione delle regioni del nostro meridione. Peraltro, il Governo Gentiloni, sembra essersi indirizzato proprio verso una politica di moderati aumenti salariali e di sussidio dei redditi minimi.
In merito se è vero che, in generale, gli studi econometrici dimostrano che l’occupazione è particolarmente insensibile alle variazioni del salario, almeno nel breve termine, tuttavia, occorre tenere conto che un aumento complessivo dei salari potrebbero aumentare le difficoltà delle imprese che esportano. Certamente, per esse, ogni incremento di costo determina una perdita di competitività e nessun beneficio, atteso che i loro prodotti si riversano su mercati esteri. Peraltro verso, di fronte ad una economia, come quella italiana, che vede una generale sottoutilizzazione della capacità produttiva degli impianti, si potrebbe cavalcare l’onda della ripresina senza il timore di una deriva inflazionistica. In tale contesto, anche gli aumenti salariali potrebbero contribuire alla crescita, stimolando la produzione di beni e servizi per il mercato interno.
Tuttavia, come abbiamo avuto modo di rilevare già in un precedente intervento sempre su questo giornale, la scarsa concorrenza sul mercato interno finirebbe, a nostro parere, per favorire le rendite di posizione, e l’aumento dei salari si tradurrebbe in un effimero beneficio, venendosi a scaricandosi sui prezzi. In effetti, se pur in teoria non mancherebbero elementi per ritenere (in linea con Ford) che salari più elevati possano stimolare i profitti delle imprese che competono sui mercati nazionali, la presenza di molti monopoli interni che condizionano il mercato interno, ci suggerirebbe una maggiore prudenza.
Purtroppo, la presenza dell’appuntamento elettorale di primavera non permette una pacata e lungimirante riflessione sul tema e, di giorno in giorno, si moltiplicano le voci che a gran voce reclamano aumenti contrattuali scollegati dalla produttività; non sfuggirà al lettore attento come tali segnali non mancheranno di essere raccolti dai partiti che sostengono il Governo. E’ facile previsione, allora, che questa sarà una finanziaria elettorale, ovvero, che tenterà di massimizzare i benefici in termini elettorali, scaricando eventualmente a dopo le elezioni le misure di recupero. All’opposizione che si candidasse al ruolo di Governo, sta il compito di smascherare la truffa.