Lo spirito della vendetta spiegato da Nietzsche ad uso di Fiano e Boldrini

17 Set 2017 12:03 - di Redattore 54

C’è un libro di Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, che ha passaggi potenti, pagine urticanti. Come quelle in cui parla del rapporto tra il più forte – il vincitore – e il più debole – il vinto. Il primo dà spettacolo della sua forza, impone l’umiliazione e poi va avanti, dedicando ad altro le sue energie, permettendosi persino di proteggere il “proscritto” per sottrarlo alla furia vendicatrice del popolo del “risentimento”. Accade dopo ogni guerra che i più saggi, tra i vincitori, non vogliano prolungare il dopoguerra. Si pensi, e può bastare come esempio, all’amnistia concessa da Palmiro Togliatti ai fascisti nel 1946. 

Ma torniamo a Nietzsche, alla sua contrarietà a tutto ciò che chiamava “fabbrica di ideali” dove sentiva “fetore di menzogna”. Alle pagine in cui spiega che una comunità si autoassolve delle sue colpe originarie costruendosi una memoria a proprio uso e consumo. Non possiamo non pensare ai recenti avvenimenti: dalla legge Fiano alle proteste per una targa in un piccolo paese ligure che ricorda una tredicenne massacrata dai partigiani.

Infatti, quando quella memoria costruita ad arte si sfilaccia, appare logora, emotivamente poco coinvolgente, ecco che i suoi custodi insorgono. Lasciamo la parola a Nietzsche: “A quel che pretendono non danno il nome di rivalsa, bensì di trionfo della giustizia; quel che essi odiano non è il loro nemico, no! essi odiano l’ingiustizia, l’empietà, quel che credono e sperano non è la speranza della vendetta, l’ebbrezza della dolce vendetta (‘più dolce del miele’ già la chiamava Omero), bensì la vittoria del Dio giusto sugli empi… basta così! Basta così!“. 

Oltre vent’anni fa, sembrava giunto il momento di una memoria condivisa. Alla base doveva esserci un nuovo patto: farla finita – a mezzo secolo dalla fine della guerra – con fascismo e antifascismo. Fu un errore pensare che i tempi fossero maturi: un fascismo frettolosamente rimosso (o ripudiato dai suoi eredi) e non veramente storicizzato continua da essere ingombrante e molesto fantasma che in troppi si sentono in dovere di strumentalizzare.

Di qui gli sbandamenti attuali: da un lato i fascistelli macchiettistici e folkloristici (indifendibili), dall’altro l’iconoclastia ideologica che si abbatte sulle vestigia di una storia che non si sa interrogare a dovere. Ernst Jünger osservava che la storia non fa altro che interrogare i morti, ma se i morti non vengono rispettati (tutti) essi non parlano e non dicono più niente ai vivi. 

Torniamo ancora a Nietzsche. Secondo il filosofo si deve passare da questo disagio dei “risentiti” alla responsabilità di una “dimenticanza attiva”, che non è oblio inerte ma imparare a separare ciò che è necessario da ciò che è casuale, ritrovare la forza di promettere, non essere prigionieri del desiderio di vendetta prolungandola oltre il lecito, non scambiare la memoria con la “cattiva coscienza”. 

Se la nostra classe politica fosse più colta, più erudita e più consapevole, forse il tema del fascismo sarebbe stato trattato diversamente, parlando di memoria, di nobiltà della sconfitta, di riconciliazione, di ciò che Nietzsche intende quando dice che “nessun presente potrebbe esistere senza capacità di dimenticare”.

Una lezione che vale per i vari Fiano, per le varie Laura Boldrini e per tanti altri che giocano, da una parte e dall’altra, con i morti. Chiudiamo ancora con Nietzsche: “Un po’ di silenzio, un po’ di tabula rasa della coscienza, affinché vi sia ancora posto per il nuovo, soprattutto per le funzioni e i funzionari più nobili, per governare, per prevedere, per predeterminare . E’ questo il vantaggio della dimenticanza attiva…”. 

 

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