Ernst Jünger e il racconto di quel pomeriggio di trent’anni fa…
“La storia autentica può essere fatta soltanto da uomini liberi. La storia è l’impronta che l’uomo dà al destino. In questo senso possiamo dire che l’uomo libero agisce in nome di tutti: il suo sacrificio vale anche per gli altri”. (Il trattato del ribelle – 1951)
Spesso mi chiedo come sarebbe il mondo se tutti leggessero alcuni libri. E’ pazzesco constatare come l’umanità, possedendo antidoti sicuri per curare le proprie malattie più gravi, se ne privi in modo così sfacciato.
Mi si obietterà che la storia non si fa con i “se” e le cose accadono perché l’uomo risponde a impulsi e condizionamenti che prevedono “anche” l’ignoranza. E’ senz’altro vero, ma anche questa negazione preconcetta del “se” non mi ha mai convinto. Una bella fetta della storia dell’umanità, di fatto (ma forse sarebbe più corretto dire tutta), non è altro che una variabile del “se”.
Come sarebbe cambiata la storia del mondo “se”, in Palestina, al posto di Ponzio Pilato, corrotto, licenzioso, crudele e non certo pervaso da grandi doti di lungimiranza, vi fosse stato un prefetto realmente capace di valutare le conseguenze delle proprie azioni e gestire gli eventi in modo appropriato, salvando Gesù dalla croce? Wellington avrebbe mai vinto a Waterloo “se” non si fossero verificate una serie infinita di circostanze “casuali” solo a lui favorevoli? (1)
Henry Tadney è un nome misconosciuto, ancorché legato a un evento che ha segnato, e non poco, la storia dell’umanità. Il 28 settembre 1918, sul finire della prima guerra mondiale, un plotone d’assalto inglese (faceva capo al reggimento “Duca di Wellington”), attaccò una trincea nemica a Marcoing, nei pressi di Cambrai, in Francia. Tra i soldati inglesi vi era proprio il ventisettenne Henry Tadney, già veterano di tante battaglie e più volte ferito in azione. L’assalto fu letale per i tedeschi, sopraffatti in pochi minuti. Henry, entrato in trincea, si trovò davanti un caporale ferito, sanguinante e impaurito, già presago della sorte che lo attendeva. Il soldato inglese, invece, pronto per sferrare il colpo mortale, indugiò e abbassò l’arma, lasciandolo vivere. “Non potevo sparare a un uomo ferito”, dirà in seguito. La battaglia di Marcoing gli valse la “Victoria Cross”, la più alta onorificenza militare assegnata per il valore “di fronte al nemico”. Peccato che il caporale cui salvò la vita si chiamasse Adolf Hitler. Il 15 agosto 1944, 200mila soldati invasero la Provenza, per accerchiare l’esercito tedesco in Francia, già in rotta grazie allo sbarco in Normandia del 6 giugno. Winston Churchill fece di tutto per convincere Roosevelt che l’operazione “Dragoon” (nome in codice dell’invasione alleata della Francia meridionale) era sostanzialmente inutile e che era preferibile dirottare le truppe nei paesi dell’Europa dell’Est, per occuparle prima che cadessero nelle mani dei russi. Come sarebbe cambiata la storia del mondo “se” il presidente degli Usa avesse dato retta al primo ministro inglese? Quattro esempi, piuttosto significativi, di una lista infinita.
Mi ero preparato bene, alla vigilia di quel 5 ottobre 1987, che vide Ernst Jünger protagonista di un convegno organizzato dall’Istituto “Suor Orsola Benincasa” di Napoli. Mi ero appuntate tante domande, tra le quali proprio quella sul “se”, che risultava oltremodo interessante, visto che veniva posta a un uomo che era stato capace di vivere la vita che aveva voluto. Ma era stato proprio così? E in caso affermativo, a che prezzo?
Al convegno mi recai con due carissimi amici, Bruno Iorio e Annamaria Rufino. Bruno era già un apprezzato docente universitario e Annamaria muoveva i primi passi della sua brillante carriera accademica. Bruno era stato docente di entrambi, quando, a soli 22 anni, già fungeva da assistente di Ricardo Campa nel corso di Storia delle Dottrine Politiche, presso la facoltà di Scienze Politiche. Poi scoprì che Annamaria non era solo una bravissima allieva, ma una donna eccezionale con rare virtù, e la sposò. (2)
L’aula magna dell’Istituto era gremita e, per quanto capiente, non poteva contenere la marea umana che si assiepava ovunque fosse possibile, per ascoltare la voce del Ribelle che combatte il Leviatano; la voce di quel gigante del pensiero, capace di spiegare la storia con la “visione” del testimone diretto e predire il futuro. (3)
Mi resi conto ben presto, però, che i miei propositi colloquiali erano destinati a fallire miseramente, considerato l’alto numero di eminenti studiosi che popolava le prime file e relatori che palesavano eloquenti intenti di monopolizzare il convegno. Dopo la prolusione del Rettore, il filosofo e futuro parlamentare europeo Biagio De Giovanni, a turno presero la parola gli altri relatori. Di Giacomo Marramao ricordo la lunga esposizione in un perfetto tedesco e le domande poste a Jünger, sempre in tedesco, che poi traduceva in italiano. Carlo Galli (4), a sua volta, disquisì sulla “Mobilitazione totale”, testo scritto nel 1930, del quale aveva curato la traduzione. Il saggio mette in risalto le straordinarie mutazioni insorte nella società con lo scoppio della 1^ guerra mondiale, che non vede solo gli eserciti combattersi su un campo di battaglia, ma l’intera umanità, “mobilitata”, quale che fosse il ruolo dei singoli individui. Non vi è alcuna differenza tra il soldato che combatte in trincea e “l’operaio” che costruisce armi in fabbrica. Ecco comparire, quindi, “Der Arbiter”, la figura umana che sarà sviluppata in uno dei suoi testi più famosi, pubblicato nel 1932: “L’Operaio. Dominio e forma”. In entrambe le opere Jünger registra il dinamismo delle forze primordiali della vita che, tornando alla ribalta, danno il colpo di grazia a una società già decadente. “La mobilitazione totale” investe tutti gli spazi della vita, che trascende la mera catastrofe rappresentata da qualsiasi guerra, contribuendo a creare una coscienza nuova in ogni individuo, proprio nel momento in cui l’individualità inizia a perdere forma e ciascuno è come nessuno. Lo spirito dei tempi, incarnato dall’Operaio che combatte sui campi di battaglia e del lavoro, avvia un processo di transizione epocale (Ubergangstand) che assomiglia a una sorta di catartica palingenesi, la ricostruzione dopo l’immane distruzione, caratterizzata da grandi fermenti, da un forte dinamismo, ma anche da una terribile inquietudine, con ripercussioni che si perpetueranno decennio dopo decennio, amplificandosi a macchia d’olio. Un processo che, sia pure con diverse connotazioni e intensità, non ha ancoro esaurito il suo percorso. Galli, che ovviamente ha ben decantato le pur complesse visioni e pre-visioni espresse tanto nel saggio da lui tradotto quanto in quello successivo, chiede soprattutto delle conferme alle interpretazioni degli studiosi, ottenendo, però, una risposta lapidaria, anche se fortemente esplicativa: “Sono stato solo il sismografo che ha registrato il terremoto”. Aveva ben percepito, il grande pensatore, che nell’uditorio, non solo tra i relatori e gli accademici, ma anche tra gli ascoltatori, si stava incuneando una “distonia” relativamente al suo ruolo al cospetto della storia. Un po’ per l’emozione di trovarsi al suo cospetto, infatti, e un po’ per il condizionamento generato da una non profonda (o irrisoria) conoscenza della sua vita e del suo pensiero, in tanti lo vedevano come un protagonista della storia di un secolo che si avviava al crepuscolo e non un testimone di fatti straordinari.
Quella risposta contribuì, nei limiti del possibile, a mettere le cose a posto.
Il convegno durò oltre due ore e i relatori, purtroppo, non solo non gli formularono nessuna delle domande che io ritenevo davvero importanti, ma occuparono gran parte del tempo con le loro relazioni, sicuramente interessanti, ma poco opportune in quel momento.
Al termine vi fu il prevedibile arrembaggio per ottenere autografi sui testi e sulle locandine. Mi feci coraggio e riuscii a raggiungerlo, trascinandomi Annamaria, che non mi era certo seconda in quanto a temerarietà. Bruno, invece, sicuramente più seccato di me per come si era svolto il convegno, per natura schivo e riservato, restò al suo posto, a meditare, come spesso gli accadeva. Fattomi largo con grande determinazione, gli porsi la locandina e una “Parker lacca cinese” per l’autografo, pregandolo di accettare la penna in omaggio. Scattai velocemente qualche foto e poi, alzando leggermente la voce affinché il mio inglese fungesse da subliminale monito per sedare il vociare convulso di chi mi attorniava, riuscii a formulare, finalmente, due domande.
Avevo considerato, velocemente, che dovevano essere brevi e secche e che proprio non vi era la possibilità di modularle in modo articolato, come mi sarebbe piaciuto.
Gli chiesi, pertanto, una riflessione sul suo rapporto con Hitler e cosa pensò quando seppe che il dittatore lo aveva cancellato dalla lista dei condannati a morte per l’attentato alla “Tana del lupo”, ordito dal suo amico, il colonnello Von Stauffenberg.
Le domande fecero effetto, perché, con mio grande piacere, tutti tacquero in attesa della risposta. Sapevo che non amava molto le domande sul nazismo e su Hitler, ma in quel periodo era l’argomento che trovavo più intrigante. La sua risposta, per quanto interessante, eluse considerazioni di carattere storico-filosofico e “non andò a fondo”, anche perché il contesto caotico di quei momenti non lo consentiva. Si limitò a dire che, nel 1932, Hitler gli offri un seggio al Reichstag, cortesemente rifiutato perché “la politica non gli interessava”. Pronunciò la frase calcando volutamente la parola “politica”, per rendere meglio l’idea che non gli interessava la politica di Hitler, al quale, per inciso, avrebbe fatto molto comodo averlo come sostenitore. (5)
Ancora più evasiva fu la seconda risposta e non avrebbe potuto essere altrimenti. Vi sono vicende della storia destinate a restare avvolte nel mistero e il coinvolgimento di Jünger nell’attentato a Hitler del 1944 è uno di questi.
E’ assodato che egli venne a conoscenza del progetto, visti i rapporti con il colonnello Claus Schenk Von Stauffenberg, l’aristocratico e raffinato conte bavarese che vantava legami di sangue con la dinastia imperiale sveva degli Hohenstaufen e con il feldmaresciallo Von Gneisenau, anch’egli conte e artefice della riforma dell’esercito prussiano. Ma fino a che punto si spinse il suo coinvolgimento? Fu un protagonista “attivo” o un semplice spettatore? L’enigma è destinato a restare irrisolto e si può procedere solo per ipotesi, partendo dai pochi dati certi. Per sua stessa ammissione sappiamo che la notizia del piano per assassinare il Führer la apprese dopo un colloquio con il fratello Friedrich Georg e l’avvocato Adam von Trott zu Solz, uno dei protagonisti del complotto. Durante il colloquio, che presumibilmente affrontava in chiave critica le vicende belliche, non si fece cenno al complotto. Solo dopo, in un colloquio riservato, Georg rivelò al fratello che si stava progettando l’attentato. Evidentemente l’idea non gli dispiaceva, ma da qui a ritenerlo attivamente coinvolto, come si legge in molti testi, ce ne vuole. In una intervista, (6) rilasciata in occasione del suo centesimo compleanno, rivela che il complotto gli suggerì l’idea di scrivere un romanzo. Un evento che avrebbe potuto incidere in modo sensibile su una immane tragedia, quindi, viene da lui recepita come semplice pretesto per una “trama letteraria”. Onestamente stento a credere che si possa pensare ad altro, tributando a quella risposta un fine strumentale, distante dalla realtà. La sua visone elitaria del mondo traspare in tutta la sua portata, alla pari del distacco dalle umane vicende, pur gravi, che tormentavano le coscienze di tanti suoi contemporanei. Anche con me, ovviamente, fu altrettanto evasivo. Un leggero sorriso accompagnò pochi secondi di riflessione, prima di rispondere, forse per volare indietro con la mente e rivivere qualche momento di quel periodo. Poi, semplicemente, replicò senza alcun riferimento al suo amico colonnello: “L’attentato del 1944… fu fortunato, il Führer, in quella circostanza…”. Forse avrebbe aggiunto qualche altra cosa, ma non gliene fu data l’occasione. I docenti organizzatori del convegno lo portarono via quasi di peso e io rimasi con un pizzico di amaro in bocca, leggermente attutito da quel barlume di risposta che, in parte, avallava la mia tesi sul “se”. Fu davvero fortunato, il Führer in quella circostanza: il forte caldo indusse a spostare il luogo della riunione in un edificio in legno, con le finestre aperte, e non nel bunker dove avvenivano di solito, che avrebbe reso devastante l’esplosione; la riunione, inoltre, fu anticipata di trenta minuti perché nel pomeriggio sarebbe giunto Benito Mussolini in visita ufficiale e Stauffenberg non ebbe il tempo di armare la seconda bomba; il tavolo ubicato in quel locale era molto più solido e resistente dell’altro e attutì la forza d’urto dell’esplosione. “Se solo non avesse fatto caldo”; “se solo la riunione non fosse stata anticipata”. E vi è anche un terzo “se”, ancora più beffardo. La bomba, contenuta all’interno di una valigetta, fu posizionata vicino a Hitler dallo stesso Stauffenberg, che poi, con una scusa, abbandonò la stanza. Tra gli ufficiali che presero parte alla riunione vi era il colonnello Heinz Brandt. Mentre visionava la mappa sul tavolo, attorniando Hitler con gli altri convenuti, urtò la valigetta con il piede e la spostò di pochi centimetri, per evitare che gli desse fastidio. Dopo sette minuti la bomba esplose, investendo in pieno lui e non Hitler. Una gamba gli venne amputata di netto e il giorno dopo morì per le ferite riportate. Il suo gesto, però, salvò la vita a Hitler, che lo promosse Maggiore Generale post mortem.
I principali congiurati dell’operazione “Valchiria”, (7) tra i quali il colonnello Stauffenberg, furono arrestati e giustiziati nel giro di poche ore. La ferocia di Himmler e Göring si scatenò soprattutto nei confronti di Von Stauffenberg. Il primo voleva massacrare tutti i membri della sua famiglia; il secondo dispose che le ceneri del colonnello fossero mischiate ad acqua di fogna e gettate in mezzo al marciume agricolo affinché non contaminassero il suolo tedesco. Altre esecuzioni, circa duecento, avvennero dopo un processo sommario, che vide coinvolte oltre cinquemila persone. Di fatto si colse l’occasione per chiudere i conti con molti nemici del regime.
Tra i nomi degli inquisiti figurava anche Jünger, che Goebbles e Himmler volevano condannare a morte. Ancora una volta, però Hitler, depennò il suo nome dalla lista. “Jünger non si tocca”, disse, e a malincuore i suoi gerarchi dovettero ubbidirgli. (Vedi nota nr. 5 circa la prima volta che Hitler gli salvò la vita). La loro vendetta, però, fu più terribile della stessa condanna a morte. Gli furono tolti i gradi di ufficiale della Wehrmacht e il figlio diciottenne, Ernestel, fu spedito a combattere in Italia, in prima linea. Perse la vita a Carrara. E’ naturale che un soldato possa morire in azione, ma forse per il giovane figlio del grande “Ribelle” avvenne proprio quello che ciascuno di voi sta pensando in questo momento, anche se non sarà mai possibile dimostrare che la sua morte fosse stata preordinata. Jünger riuscì a recuperare il corpo del figlio solo nel 1951, grazie all’aiuto di Henry Furst, Giovanni Ansaldo e Marcello Staglieno. (8) Fu proprio il poliedrico intellettuale statunitense che portò le spoglie di Ernst a Wilflingen. Lo scrittore si era trasferito nel villaggio dell’Alta Svevia nel 1950 e abitava nel castello dei von Stauffenberg, dove rimase sino alla morte e dove invece non misero piede la vedova del colonnello e i suoi cinque figli, cui toccò ben triste sorte, anche se riuscirono a scampare alla morte. (9)
L’incontro con Ernst Jünger, ancorché breve, è stato senz’altro uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Toccare un Uomo che è stato il testimone dell’epopea più tragica vissuta dall’umanità, ascoltare la sua voce, sentirlo respirare, ha generato sensazioni mai assopite. Il suo pensiero, approfondito sui tanti testi scritti, ha costituito una vera medicina per lo spirito, rivelatasi molto utile quando la vita ha imposto di fare i conti con la sua caducità. I confronti epocali risultano sempre stucchevoli e fuori luogo. L’uomo prosegue il suo cammino, scrivendo pagine di storia, a volte belle e spesso tragiche. Sarà sempre così. Non si commette alcun peccato mortale, tuttavia, quando si afferma che, “al di là del bene e del male” e solo come mera analisi sociologica, in meno di cinquanta anni, si è registrata una straordinaria accelerazione del processo di mutazione del comportamento umano, rispetto ai secoli precedenti, che ha inciso profondamente nel modo di pensare e di concepire la vita, alterando sensibilmente princìpi, scale di valori, rapporti interpersonali e rapporti con la propria coscienza. Oggi, per dirla in breve, uomini come Ernst Jünger non se ne trovano, proprio in virtù del fatto che la realtà sociale condiziona in ben altro modo gli individui. Coloro che appartengono alla mia generazione hanno potuto “visualizzare” con maggiore chiarezza il passaggio epocale, in quanto, da giovani, hanno ancora avuto modo di “respirare” un’aria che sapeva d’antico. La veloce trasformazione sociale, poi, in molti ha generato seri problemi di adeguamento: si può imparare a utilizzare bene un computer a qualsiasi età, ma è molto più difficile cambiare radicalmente non tanto un’idea, quanto “il modo di pensarla”, nonché l’approccio con il fluire delle vicende umane.
Sotto questo profilo voglio citare un aneddoto che mi riguarda da vicino e chiarisce meglio il concetto.
Qualche anno fa mi recai a far visita a un mio amico, sottufficiale dei Bersaglieri, nella caserma presso cui prestava servizio. Mentre discorrevamo sorseggiando un caffè, giunse un giovane ufficiale al quale mi presentò come ex Bersagliere “dell’eroico” 18° Battaglione Poggio Scanno. Il tenente, stringendomi la mano, mi disse subito che oramai quel battaglione non esisteva più. Pronunciò la frase con il sardonico sorriso di chi è pienamente ed entusiasticamente coinvolto nel suo mondo e vede fatti e avvenimenti del passato ancor più lontani di quanto non lo siano nella realtà.
“Lo so bene – replicai, con un sorriso ancor più sardonico – e fu per me, come presumo per tanti altri commilitoni, un motivo di grande gioia lo scioglimento del Battaglione”. “Ma come – aggiunse, visibilmente sorpreso – non le è dispiaciuto?
“Tutt’altro! Vede, caro tenente, noi soldati del 18° Poggio Scanno siamo stati gli ultimi che si avvicinavano allo spirito dei soldati di un tempo, quelli del glorioso 3° Reggimento, ad esempio, da cui il battaglione proveniva, e allo spirito del soldato “guerriero”. I soldati della sua generazione, invece, sono pervasi da un altro spirito, che si esalta encomiabilmente in occasione delle alluvioni e dei terremoti. Ed è senz’altro meglio così, mi creda, perché la Pace è un bene supremo da tutelare e preservare. Mi sembra giusto, tuttavia, che quell’aura mistica e così particolare del mio vecchio Battaglione sia stata preservata con il suo scioglimento, invece di essere dispersa come lacrime nella pioggia, perpetuandone il nome nei tempi attuali”. Il tenentino balbettò qualcosa e, inventandosi un improvviso impegno, produsse un rapido dietro-front e si allontanò velocemente.
Questa differenza sostanziale tra due epoche così vicine e, allo stesso tempo, così lontane, fu resa ancor più chiara e palpabile proprio grazie all’incontro con Ernst Jünger, che di quel passato, alcuni sentori dei quali era ancora possibile percepire negli anni sessanta e settanta, fu un magistrale interprete.
La locandina con la sua firma autografa mi fa compagnia nel mio studio, alle mie spalle, da allora. Non ho mai smesso di leggere e rileggere i suoi libri e di godermi il suono della sua voce grazie alle numerose testimonianze reperibili in rete. Mi capita spesso di pensare a quell’incontro e a tutte le domande che mi avrebbe fatto piacere porgli, immaginando anche le risposte, perché, dopo tutto, i Grandi Uomini hanno sempre una sola risposta per ogni domanda, quella giusta, e non è difficile intuirla una volta che si sia riusciti ad entrare nel loro “universo”.
L’incontro con Jünger avvenne, come ho scritto in precedenza, il 5 ottobre 1987. Da circa un anno avevo terminato di scrivere il mio primo romanzo, “Prigioniero del Sogno”, che è rimasto nel cassetto per un trentennio, primo di vedere la luce. (10).
La sera, rientrato a casa ebbro di sensazioni contrastanti e con la testa che scoppiava per i tanti pensieri che si succedevano con ritmo vertiginoso l’uno dietro l’altro, dopo essermi sforzato di recuperare un minimo di serenità, presi un foglio bianco e lo inserii nella “Olivetti ET112”, che raccolse i miei pensieri ancora per i due anni successivi, prima di essere sostituita da un pesantissimo personal computer. Copiai dai diari scritti in Francia, nel 1942, uno degli aforismi più belli di Jünger e poi collocai il foglio all’inizio del romanzo. “Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne all’orlo dell’infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d’avanguardia, sull’estremo limite del nulla: sull’orlo di quell’abisso combatto la mia battaglia”. Sentinella perduta sull’ultimo avamposto, quello che non è segnato su nessuna mappa, forse perché a nessuno interessa conquistarlo. O forse perché può essere visto solo da chi sappia guardare oltre l’orizzonte più lontano.
NOTE
1) Napoleone con le emorroidi che non riusciva a stare in sella per controllare la battaglia e non riuscì mai ad avere un quadro chiaro, a differenza di Wellington, che galoppava in lungo e in largo tra le sue truppe. La pioggia, che rese il terreno fangoso limitando l’utilizzo dell’artiglieria e determinò lo spostamento dell’inizio della battaglia, favorendo il rientro dei Prussiani. La morte di Berthier, capo di stato maggiore, pochi giorni prima della battaglia, non si sa se per incidente, suicidio o omicidio (propendo per la terza ipotesi) sostituito da Soult, che del predecessore non aveva né la competenza né il carisma. Con Berthier non si sarebbe mai verificata l’idiozia perpetrata dal Maresciallo Ney: attaccare con la cavalleria senza il sostegno della fanteria (Napoleone si era dovuto allontanare perché gli bruciava il sedere e l’attacco fu ordinato senza il suo assenso, determinandogli bruciori ancora più forti quando venne a sapere della fesseria commessa dal suo sottoposto). Tutto ciò premesso, sarebbe bastato che quel babbeo del generale Grouchy avesse intercettato i prussiani, impedendo loro di raggiungere il campo di battaglia, invece di starsene fermo a Wavre, e gli eventi avrebbero preso tutta un’altra piega. Significativa, sotto questo profilo, la frase che Napoleone pronunciò dopo che ebbe chiesto a Soult se avesse fatto recapitare il suo ordine a Grouchy. Alla di lui risposta: “Sì, ho mandato un ufficiale”, replicò piccato e deluso: “Un ufficiale! Ah mio povero Berthier! Se fosse stato qua ne avrebbe mandati venti!”
Va detto, di converso, che il “se” non riguarda solo Napoleone. Wellington ebbe l’opportunità di “risolvere la partita” prima che iniziasse, quando un suo ufficiale gli disse che l’Imperatore era a tiro di cannone mentre perlustrava le truppe. Famosa la sua risposta nel rifiutare l’autorizzazione a sparare la salva: “I comandanti hanno di meglio da fare che spararsi a vicenda”. Capriccio da Lord che non avrebbe cambiato la storia, (per Napoleone non vi sarebbe stato futuro anche in caso di vittoria, perché le monarchie alleate non gli avrebbero comunque lasciato scampo) ma che avrebbe impedito la morte di circa settantamila uomini, Il che non è cosa da poco.
2) Il matrimonio fu celebrato tre giorni dopo il convegno, l’8 settembre. Bruno è deceduto a causa di un infarto nel 2003.
3) In Eumeswil, uscito nel 1977 (concepito nel 1972), si trovano sconcertanti premonizioni: sulla tecnologia, l’avanzamento della decadenza, il destino di globalizzazione, le forme di resistenza. Jünger descrive minuziosamente macchinari e tecnologie che si sarebbero affermati solo dopo qualche decennio: i personal computer, internet, i telefoni cellulari.
4) Filosofo politico e docente universitario.
5) Oltre al seggio gli fu offerta anche la presidenza dell’Accademia Tedesca dei Poeti, ma egli rifiutò entrambe le cariche. Anche Goebbles lo aveva corteggiato a lungo, invano, per indurlo a sostenere il nazionalsocialismo, come ammise pubblicamente: “Abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare”. A Jünger, di fatto, ripugnava lo stile volgare e demagogico del nazionalsocialismo e non nutriva alcuna fiducia circa i progetti grandiosi che enunciava. Il suo rifiuto generò una sorta di risentimento nelle alte sfere del regime, che iniziò un sottile ostracismo. La sua abitazione fu perquisita dalla Gestapo e l’uscita dei suoi libri messa sotto silenzio dalla stampa. Nel 1939, Goebbels, a una conferenza pubblica, gli domandò: “E ora, Herr Jünger, cosa ne pensa?” Lo scrittore rispose con un romanzo: “Sulle scogliere di marmo”. In esso si parla di una terra idilliaca che passa, violentemente, dall’ordine tradizionale a un regime barbarico e totalitario. A questo punto, Göring e Goebbels avrebbero voluto liquidarlo, come già era stato fatto con altri esponenti della Destra tedesca, quali Niekisch, imprigionato, e E.J. Jung, assassinato. Hitler, tuttavia, che subiva il suo fascino di scrittore, gli salvò la vita.
6) Rete televisiva Zdf – Intervista rilasciata al drammaturgo Rolf Hochhuth e al critico Gero von Boehm.
7) Operazione Valchiria. Stauffenberg e la mistica crociata contro Hitler – Michael Baigent Michael; Richard Leigh – Edizioni “L’età dell’Acquario” – 2009. (Molto valido anche il film “Operazione Valchiria (Valkyrie) diretto da Bryan Singer nel 2008, con Tom Cruise nel ruolo del colonnello Stauffenberg.
8) Antonio Gnoli – Franco Volpi: “Il tempo dei titani. Conversazioni con Ernst Jünger”. Adelphi, Milano. Vedere anche il testo di Luigi Iannone: “Jünger e Schmitt. Dialogo sulla modernità. Introduzione di Marcello Staglieno. Armando Editore, 2009.
9) Dopo l’esecuzione sommaria di suo marito, la contessa Von Stauffenberg fu arrestata dalla Gestapo e presa in custodia secondo l’antica legge del Sippenhaft, (arresto per motivi di parentela) ristabilita dal governo nazista. I cinque figli furono inviati in un orfanotrofio a Bad Sachsa, in Bassa Sassonia, con il cognome mutato in “Meister”.
A guerra finita la contessa fu trasferita in provincia di Bolzano, dove fu trattenuta come ostaggio, in cambio del riscatto di alcune proprietà naziste. In seguito raggiunse la famiglia a Lautlingen, nella casa di proprietà. La contessa morì il 2 aprile del 2006 a Kirchlauter, in Baviera, all’età di 92 anni.
10) “Prigioniero del sogno” – Edizioni Albatros, marzo 2015.