L’idea del calendario “arcobaleno” uccide il senso della festa
Qual è l’essenza della Festa ? Ritualità, mito, magia, memoria, religione: il senso della Festa è tradizionalmente il crogiolo dell’appartenenza. E’ dunque qualcosa di più di una data o di una memoria ricorrente. E’ il segno di identità complesse, che parlano della Storia e del vissuto dei popoli, delle loro credenze, delle rispettive visioni della vita e del mondo. È – a ben vedere – il trionfo delle “differenze”.
Niente di più lontano perciò dall’idea del melting pot civile e culturale rincorso, con affanno, dalla vulgata corrente, impegnata a spianare l’identità nazional-locale, in nome di una superficiale idea di pluralismo. Ultima trovata quella della ministra Valeria Fedeli, che ha fatto diffondere in tutte le scuole il “calendario del dialogo”, colorato delle festività di tutte le religioni, livellate da una indistinta idea dell’appartenenza, che mette insieme Santi Patroni e Torah, cicli lunari e Corano, la memoria di un profeta e la celebrazione del trono di un guru, sciiti e sunniti, shintoisti e valdesi, zoroastriani e copti. Un’enorme gazzarra multicolori, dove a trionfare sarà l’indifferentismo culturale: tutti uguali, tutti sullo stesso piano, tutti assimilati, con buona pace per quel vasto e ricco apparato cerimoniale, religioso e civile, che caratterizza ogni parte del nostro Paese, ogni piccola e grande comunità.
Immaginiamoci i ragazzini delle scuole italiane sballottolati – come da circolare ministeriale – tra il Capodanno cristiano (1 gennaio), quello sikh ed induista (metà marzo), il Capodanno Buddista (maggio), quello ebraico (21 settembre), l’islamico (22 settembre) e la Festa della Luce (ottobre).
La scelta della ministra non è certamente casuale. Al fondo del “calendario arcobaleno” c’è l’idea che le religioni, in sé e per sé, non esistono e che tutto è lasciato alla libertà e alla conoscenza scambievole, dove i riti ed i segni, essenza delle stesse feste, perdono di significato, pura e semplice materia da apprendere, quasi fossero le tabelline.
In questo ambito – ad essere coerenti – non ci sarà allora più spazio per i presepi, considerati segni xenofobici, né per il Crocifisso esposto nell’aula: tutto va azzerato nell’incubatore dell’indeterminato. È la sinfonia dell’alterità – teorizzata da certo progressismo cattolico – rispetto alla Fede e quindi all’appartenenza identitaria.
Il risultato è che a mettere le feste sullo stesso piano, trasformandole in oggetti neutrali di studio, si fa perdere di vista il loro valore e si perde – nel contempo – il senso della realtà. Una realtà dove le differenze (religiose e non solo …) esistono, frutto di stratificazioni millenarie, e non possono essere certamente abolite da un calendario variopinto, nel quale le differenze vengono frullate e le feste, quelle in cui la comunità nazionale si riconosce, diventano solo delle date tra tante.
Se è vero che nel tempo della postmodernità e del postindustrialismo il senso della Festa ha trovato nuove ragioni d’essere, è all’essenza dell’appuntamento festivo che bisogna guardare per ritrovarne le ragioni vere e profonde: quelle legate al sacro, alla risacralizzazione dell’esistenza (nella sua duplice ragion d’essere quotidiana ed extraquotidiana), all’idea di comunità e di appartenenza, al senso dei simboli ed dei riti.
Le vere feste conservano l’idea di una eccezionalità che non può venire banalizzata, magari attraverso un calendario multicolori confuso e pasticciato, mentre negare le differenze vuole dire favorire un processo di sradicamento culturale che partendo dalla Scuola tende a permeare tutta la società. Con il risultato di rendere ognuno sempre più debole e facilmente manipolabile.