La diminuzione delle nascite è la morte dei popoli (e delle economie)
Sono 12mila in meno i bambini nati nel 2016 rispetto al 2015. In confronto al 2008, mancano all’appello 100mila “fiocchi” blu e rosa sulle porte delle famiglie: in un’Italia in cui fare una famiglia e mantenerla è sempre più un’utopia, è un vero e proprio esercito quello dei “non nati” negli ultimi anni. E’ quanto emerge dal rapporto Istat “Natalità e fecondità della popolazione residente – Anno 2016”: osservando i dettagli del report, si nota che a non mettere al mondo figli sono principalmente le coppie italiane, che nel 2016 hanno avuto 373.075 bambini, oltre 107mila in meno in questo arco temporale. Inoltre, se il numero medio di figli per donna scende a 1,34 rispetto all’1,46 del 2010, prendendo in esame il numero delle italiane si arriva a 1,26 rispetto all’1,34 del 2010.
Fin qui i numeri, oggettivamente preoccupanti se letti con attenzione, ma sui quali mass media, mondo della cultura e della politica non sembrano prestare molta attenzione, al punto che non è eccessivo definire le questioni demografiche un tabù. Le ragioni sono diverse.
Pesa sull’argomento un certo complesso ideologico, determinato sia dal radicalismo d’impronta maltusiana, che, a partire dagli Anni Sessanta, ha condizionato prima il mondo accademico poi il costume collettivo, individuando nell’ansia della sovrappopolazione della terra una delle grandi emergenze del mondo moderno, sia dall’idea che, parlando di crisi demografica, si finisca per evocare i fantasmi del numero-come-potenza, con gli immancabili corollari del colonialismo e dell’imperialismo.
Lasciando da parte le anticipatrici analisi del bavarese Riccardo Korherr, autore di Regresso delle nascite: morte dei popoli, prefato nell’edizione italiana del 1928 da Benito Mussolini e da Oswald Spengler, la questione in realtà è ben più semplice. E riguarda proprio temi di stringente attualità, quali il “declassamento” dei singoli stati, la crisi economica, il ricorrente argomento dall’emergenza sociale e pensionistica.
Del resto, l’aumento delle tasse (in particolare per pensioni e sanità) è strettamente legato all’invecchiamento della popolazione, mentre è un dato di fatto che la diminuzione delle nascite non ha provocato l’innalzamento della ricchezza degli stati interessati al fenomeno, i quali, negli ultimi vent’anni, hanno, al contrario, visto un aumento del loro indebitamento.
Numeri alla mano, si può parlare di un rischio collasso per decine di stati interessati al fenomeno, con conseguenze gravissime per l’intero equilibrio globale. E purtroppo l’Italia è tra questi.
Perciò serve “una revisione radicale delle priorità”, che riporti al centro famiglia e maternità, con un’ampia “presa di coscienza” sull’argomento ed una conseguente assunzione di responsabilità dell’intera società nazionale, a tutti i livelli, dalla politica, alla cultura, all’economia.
Il quadro non è ancora irreparabilmente perduto. Nel Paese è ancora forte il desiderio di famiglia e di maternità. Ma è un dato di fatto che siano molti, troppi, i fattori di ordine sociale e culturale che frustrano tale desiderio, lo depotenziano, lo riducono nell’ambito delle dispute morali o “di fede”.
Come evidenziano certi parametri il problema riguarda invece la stessa tenuta del nostro sistema economico e sociale, la bontà dei nostri bilanci, quello pubblico e quello delle famiglie, la possibilità di affrontare e reggere le sfide future.
Più che un costo i figli vanno insomma visti come una grande risorsa, spirituale e materiale, su cui credere ed investire. Pena la frammentazione sociale, l’indebolimento delle nostre possibilità di vita e di crescita, il lento tramonto del nostro essere nazione. Di questo vorremmo che si discutesse e si prendessero iniziative conseguenti. Su questo si misura una “grande Politica” capace di prefigurare il futuro, piuttosto che subirlo.