Martina e la guerra persa col sorriso. Lezioni di cancro e coraggio in un libro
In una strada affollata di turisti del centro storico di Napoli, a un passo dai presepi fuori stagione di San Gregorio e dalla vecchia celebrità del posto, il Cristo Velato della Cappella di San Severo, un cartello bagnato di pioggia invita a entrare in un libreria laterale per ascoltare una di quelle storie che non si conciliano benissimo con le sfogliatelle e le pizze fritte servite di fronte. Qualcuno entra e sale su, c’è una piccola saletta, dei relatori, un po’ di pubblico, un piccolo schermo, una storia sottile, una leonessa disegnata su una copertina. La serata si apre con l’immagine di un uomo che in video, prima completamente afono poi un po’ ansimante e cavernoso, parla di una ragazzina che non ha mia conosciuto ma la descrive come se l’avesse cresciuta lui, la definisce coraggiosa, brillante, forte, volitiva, poi ne annuncia la morte prematura perché “per guarire non basta volerlo”. È un uomo provato, ha appena preso un cazzotto in pieno volto, capita anche alla sua età, 80 anni, di cui almeno tre quarti trascorsi a raccontare storie dolorose che continuano ad emozionarlo: stavolta lo ha colpito in faccia, a freddo, un libro su una “guerriera sorridente”, Martina Ciliberti, sconfitta dal tumore.
«È strabiliante scoprire come i ragazzi, dai quali ci si aspetta fragilità, vulnerabilità, siano capaci di insegnare a noi adulti cosa sia il senso del vivere». Quel signore è Maurizio Costanzo, tra i più importanti giornalisti italiani, uno che ha trovato il tempo e la voglia di leggere e firmare la prefazione di un volume che racconta la storia di un’adolescente napoletana che ha lottato e perso contro il cancro, raccontandolo giorno dopo giorno, per poi lasciare completare l’opera alla sua maestra di ospedale e alla giovane sorella, fino a coronare il suo sogno: dare alle stampe “Martina, la lotta coraggiosa di una guerriera sorridente” (edizioni Infinito, euro 12, pp. 138).
Un progetto curato da Daniela Di Fiore, giornalista, educatrice, prof di corsia per giovanissimi ricoverati nel reparto oncologico del “Genelli ” di Roma, già autrice del volume “I ragazzi con la bandana“, dedicato proprio al racconto di quella medicina che aiuta i malati ad andare avanti: l’struzione, che crea autostima, che alimenta progetti, che serve a sopravvivvere o a morire meglio. Con il sorriso, come quello di Martina, che proprio dall’incontro con la maestra napoletana, nei giorni del suo interminabile calvario a Roma, aveva maturato l’idea del libro, firmato da lei e concluso postumo anche con l’aiuto della sorella. Al tavolo della libreria “Ubik” di via Benedetto Croce, ai Decumani, c’è Gabriele Manzo, giornalista di Rtl 105, che Martina l’ha conosciuta e ne parla come di un simbolo “di chi non vuole arrendersi e vuol dare qualcosa, anche dopo la morte”; c’è il chirurgo oncologo Giovanni de Lisa, che si commuove per le pagine in cui Martina conta i suoi globali bianchi ormai rarissimi e promette di “dare un nome a ognuno di loro”; c’è la sorella di Martina, Stella, che vuole essere chiamata così, “sorella di Martina”, perché è orgogliosa di aver combattuto al fianco di una persona che considera speciale. Speciale perché nel racconto della malattia, in quella via crucis di ricoveri e operazioni, in quell’altalena di speranze, delusioni, precipizi e resurrezioni, la ragazzina colpita dalla terribile malattia a soli 14 anni, è riuscita a rendere l’idea di cosa sia l’attaccamento alla vita prima ancora di immaginare di poterla perdere.
«Lei era un vulcano, credeva in tutto quello che faceva, dava a tutti noi la forza di credere anche nella sua guarigione», racconta Stella, che cita una delle ultime conversazioni con la sorella, già grave, con quell’annuncio disinvolto, “sai, ho avuto un arresto cardiaco”, che suonava, alla diciassettenne in fase terminale, quasi come il minore dei mali da cui riprendersi. Era l’inizio della fine, quando il racconto in prima persona sfuma improvvisamente e il libro chiude il sipario sulla vita di Martina cambiando improvvisamente scena e lasciando che la storia riprenda, quasi senza finire, dal proscenio di chi le stava accanto e la vedeva sfiorire per quella cosa che lei non voleva definire con ipocrite metafore. «Chi è malato di cancro vuole che si rompa il spario della commiserazione che lo circonda, non accetta l’esorcismo pavido di chi non vuole usare la parola “tumore” e ripiega su “un brutto male”, non chiede pietà ma solo comprensione perché il tumore è una sfida deve essere combattuta e accettata, è una sfida che non appartiene solo al malato ma anche a chi lo circonda. La diagnosi di tumore non è una condanna a morte ma semplicemente ti ritrovi a un bivio…», scrive Martina.
L’estate svanita, le feste in ospedale, l’amore, Ciro, gli amici, le ultime serata in pizzeria, le maledizioni ai veleni della terra dei fuochi, le corse a Roma, la ricerca del pesce, della mozzarella, dei taralli di casa sua, mamma che cucina per tutti, la suora che l’adotta, il Signore che le regala la fede ma si riprende il corpo. «Quando l’ho conosciuta, quattro anni fa, nel reparto di oncologia pediatrica del Gemelli, era poco più di una ragazzina. Un bel caratterino, teneva testa anche ai medici. Cosa mi fate, perché lo fate. Quante sedute di chemio…», racconta Daniela Di Fiore, che procede a salti emozionali fino agli ultimi giorni: «Quando andavo a farle lezioni la trovavo addormentata, rannicchiata sul suo fianco, estremamente stanca. I suoi occhi parlavano da soli, come per dire: che ci faccio qui? Ma poi spuntava il suo sorriso, trascinante, travolgente, i suoi occhi penetranti: studiare era il suo progetto, la garanzia del futuro, come tanti bambini e ragazzini che per fortuna ce la fanno…». Fuori piove, ma anche dentro. Diluvia. Niente retorica, però, lo chiedeva Martina, lo ricorda anche quell’anziano giornalista col baffo che in video parla di una lotta “portata avanti con dignità, senza dare spazio alla pietà alla commiserazione ma solo alla speranza”. Buona Martina a tutti, avrebbe detto qualche anno fa.
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