Tortora, 35 anni passati invano, ancora un'(in)giustizia vergognosa e manettara (video)
«Hanno proprio sbagliato uomo. Per mettermi in ginocchio ci vuole altro che un esercito di Pulcinella». Era il 18 maggio 1988. Ed Enzo Tortora, il volto della trasmissione televisiva “Portobello”, il conduttore cortese che entrava con delicatezza ed ironia garbata nelle case degli italiani, l’esempio più clamoroso di come una malagiustizia cieca e presuntuosa può testardamente accanirsi contro un individuo fino ad annientarlo, moriva stroncato da un tumore polmonare consegnando, così, definitivamente alla storia – e non più alla cronaca giudiziaria e voyeuristica – la vicenda di un uomo che è diventato un’icona, la personificazione dei terribili e, purtroppo, numerosissimi, errori giudiziari italiani.
Ci vollero 4 anni per dimostrare la sua innocenza. E, in mezzo, un vergognoso arresto gestito in maniera clamorosamente mediatica, con il conduttore esibito in manette come un trofeo, stretto fra due carabinieri, mostrato come una preda a giornalisti e fotoreporter, 7 mesi di carcere e molti altri ai domiciliari.
Nessuno pagò realmente per quegli errori. Nessuno pagò per quell’infamia che aveva distrutto la carriera e la vita di un uomo. Non i magistrati che lo perseguirono. E che si ostinarono a credere alle parole dei pentiti. Non certi giornalisti, pure colleghi del giornalista Enzo Tortora al quale non si perdonava l’affronto peggiore: faceva una trasmissione semplice, di successo ma, soprattutto, nazionalpopolare, lontana dagli schemi di certi intellettualoidi. Quegli intellettualoidi lo azzannarono alla gola.
Scrisse Camilla Cederna in un pezzo a dir poco infame sulla Domenica del Corriere: «Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto. E non mi piaceva il suo Portobello…Il successo ottenuto così si paga».
Eppure bastava veramente poco per smentire quei pentiti.
Il giudice Michele Morello, grazie all’onesto lavoro del quale, Enzo Tortora riuscì ad arrivare alla fine della sua odissea, raccontò così come aveva fatto a far crollare il castello accusatorio: «Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico: partimmo dalla prima dichiarazione fino all’ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po’ sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell’altro, che stava assieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti: di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell’imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie…»
Tutto ebbe inizio il 17 giugno 1983. La trasmissione “Portobello” era all’apice del successo con 28 milioni di telespettatori che la seguivano incollati agli schermi. La popolarità di quell’uomo così semplice e così capace di comprendere cosa voleva, davvero, le gente in tivvù, sembrava inarrestabile.
Proprio quel giorno Enzo Tortora avrebbe dovuto firmare il contratto con la Rai per una nuova edizione.
Alle 4 di notte i carabinieri si presentano all’Hotel Plaza di Roma, dove il “milanese” Enzo Tortora alloggia, e lo arrestano. Ma non lo portano subito in carcere. Si attende la mattina. Quando un’orda di cameramen e fotografi impazziti possono riprenderlo con le manette ai polsi mentre lo trasferiscono nel carcere di Regina Coeli.
Ricorda il critico televisivo Aldo Grasso: «le reti Rai mandarono in onda ininterrottamente e senza pietà le immagini del conduttore ammanettato».
Un’immagine vergognosa che, a oltre 30 anni di distanza, restituisce la raffigurazione di una giustizia inetta, incapace di ammettere i propri errori, di una giustizia manettara e giustizialista, di una casta autoreferenziale, quella dei magistrati, che può cambiare i destini di una persona e di un Paese. E può stroncare vite e carriere. E di un’altra casta, quella di certi giornalisti, che troppo spesso specula sulle disgrazie altrui “gestendo”, in maniera irresponsabilmente vergognosa, i rapporti e le relazioni personali con la magistratura.
Quel 17 giugno vengono eseguiti altri 855 ordini di cattura emessi dalla Procura di Napoli nei confronti di presunti affiliati alla nuova Camorra Organizzata, capitana da Raffaele Cutulo.
Inizialmente le accuse contro il presentatore arrivano da due sedicenti pentiti della Nco, Giovanni Pandico e Pasquale Barra detto ‘o’ Animale’ già noto all’epoca perché, mentre era in carcere, aveva ucciso, con 40 coltellate, Francis Turatello, gli aveva tagliato la gola, gli aveva squarciato il petto e gli addentò il cuore.
Poi, a catena, si aggiungono altri 17 altrettanto presunti testimoni che non solo confermano le accuse ma le colorano di nuovi particolari.
Si scoprirà in seguito – come, appunto, fece l’onesto giudice Michele Morello – che, in realtà, pentiti e testimoni potevano liberamente comunicare mentre si trovavano nella caserma di Napoli.
Le accuse ruotano, essenzialmente, attorno ad un’agendina con il nome – si sostiene erroneamente e caparbiamente – di Enzo Tortora. In realtà sulle pagine di quell’agendina c’era scritto Tortona e non Tortora. Perdipiù il numero di telefono scritto accanto al nome non corrisponde assolutamente a quello del popolare conduttore e giornalista. Ci vorrebbe pochissimo per accertare che Enzo Tortora non c’entra nulla con quell’agendina e con quel numero di telefono. Ma, in quel momento, serve il mostro. E il mostro viene servito a un’opinione pubblica scossa.
A rafforzare la ferma e inossidabile convinzione dei magistrati ci sono anche alcuni centrini di seta prodotti da alcuni detenuti e inviati alla trasmissione “Portobello” da Pandico, dal carcere dove era ristretto. Voleva che fossero messi all’asta nel corso della trasmissione. Ma i responsabili del programma televisivo, purtroppo, li smarriscono. Quei centrini diventano, nelle parole di alcuni pentiti, delle partite di droga.
Il 17 settembre 1985 Enzo Tortora viene condannato a 10 anni di reclusione per associazione a delinquere di tipo mafioso e traffico di stupefacenti. .
Esattamente un anno dopo, il 15 settembre 1986 , altri giudici napoletani ribaltano la sentenza. E lo assolvono con formula piena.
Nel corso del primo processo Tortora viene eletto europarlamentare nelle file dei Radicali. E diventa, poi, presidente del partito per poi dimettersi scatenando l’ira di Marco Pannella.
Tortora torna a presentare il suo Portobello il 20 febbraio 1987. E apre la trasmissione con una frase che scuote il paese per la sua semplicità nonostante la bufera che quell’uomo aveva attraversato, nonostante la rabbia, la disperazione e la frustrazione che aveva accumulato dentro. «Dunque, dove eravamo rimasti?», esordisce mentre gli spettatori in studio gli tributano un lungo, caloroso e commuovente applauso alzandosi in piedi di fronte a quella vittima della malagiustizia e della magistratura.
Il 13 giugno 1987 è la Cassazione a mettere la parola fine all’odissea di Enzo Tortora confermando il secondo grado di giudizio.
Un anno dopo, il 18 maggio 1988, Enzo Tortora muore, stroncato da un tumore polmonare. «Mi hanno fatto esplodere una bomba atomica dentro», disse alludendo ai suoi carnefici.
Sono passati 35 anni dal suo arresto, 30 anni dalla sua morte. Ma nulla è cambiato, davvero.
«Dal mio punto non è cambiato nulla: sono 30 anni di amarezza e di disgusto – accusa la figlia maggiore, Silvia Tortora – Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto. I processi continuano all’infinito. Anzi in 30 anni c’è stata una esplosione numerica». Peggio. «Ci siamo incrudeliti ed assuefatti all’ingiustizia, c’è un generale imbarbarimento. Vedo trasmissioni su casi giudiziari, dove non c’è mai un’ottica dubitativa».
«Enzo è stato prelevato dalla sua vita – ricorda Silvia Tortora – senza che venisse aperta una Commissione d’inchiesta, senza che nessuno pagasse per quell’errore. Anche se penso che Enzo se ne sia andato troppo presto è meglio che non veda questo schifo. A cosa è servito il suo sacrificio? La potenza del dolore e dell’ingiustizia ha provocato un solo effetto: la sua morte».
La follia di quel caso giudiziario portò all’approvazione della legge Vassalli sulla responsabilità dei magistrati. Ma la legge, come tutte le leggi. non contemplava la retroattività. Non solo. Non è mai stata realmente applicata. A pagare per gli errori dei magistrati è lo Stato, cioè tutti noi cittadini, di tasca nostra. Non le toghe, una delle caste italiane più potenti.
«Chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia – scrissero i legislatori all’articolo 2 della norma facendo nascere una legge già sbagliata nell’impianto – può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali». Così i magistrati possono fare carne di porco senza preoccuparsi troppo delle conseguenze.
Nel 2015 la norma è stata revisionata scatenando l’ira furente dei magistrati e dei loro sindacati.
In teoria lo Stato deve poi rivalersi sui magistrati entro due anni. Ma cambia poco o nulla. Perché bisogna dimostrare – e non è per nulla facile – che c’è stata da parte del magistrato l’affermazione di un fatto inesistente o la negazione di un fatto esistente o la violazione manifesta della legge e del diritto comunitario o il travisamento del fatto o delle prove piuttosto che l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale al di fuori dei casi consentiti dalla legge o senza motivazione. Un vero e proprio percorso di guerra per il semplice cittadino.
«Nell’era della comunicazione digitale la presunzione di innocenza è un principio poco tutelato – ammette la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati intervenendo al convegno in occasione del trentennale della scomparsa di Enzo Tortora. «La “costruzione mediatica di un fatto inesistente” – accusa – è un pericolo incombente sul valore della non colpevolezza fino a prova contraria».
«Cosa è cambiato da allora? – si chiede la presidente – quale è l’eredità del caso Tortora? Restano gli “interrogativi sullo stato di salute del sistema giudiziario italiano certamente, ma anche un’attualissima riflessione sulla pericolosa costruzione mediatica di un fatto inesistente – supportata in questo caso addirittura da un processo paradossale – concepito sulle pagine dei giornali prima ancora che nelle aule dei Tribunali».
«Ebbene – riconosce la Casellati definendo la vicenda di Tortora «un vero atto di barbarie sociale»- per quanto sconcertante possa sembrare, dobbiamo ammettere che quegli avvenimenti potrebbero ripetersi e potrebbero interessare chiunque».
Cosa è cambiato? “«Forse troppo poco, probabilmente non abbastanza – ammette la presidente del Senato che è anche avvocato – anche a causa di un’opinione pubblica che resta tendenzialmente accusatoria, che si fa influenzare dai toni roboanti e non analizza, non si interroga. Prevale la sensazione che la presunzione di innocenza non sia un principio del diritto riconosciuto e tutelato; e non sono rari i casi – anche di stretta attualità – in cui il lavoro dei giornalisti si intrecci con quello dei magistrati per la costruzione di una campagna basata su teoremi preconfezionati».
«Il caso Tortora resta e resterà una pagina di vergogna della storia giudiziaria ma anche civile italiana – addita la Casellati – Ma quanti Tortora ci sono nelle carceri italiane? Quante persone subiscono il torto di non potersi difendere, di non poter parlare? A queste persone Tortora voleva dare voce. “Hanno proprio sbagliato uomo. Per mettermi in ginocchio ci vuole altro che un esercito di Pulcinella”, scriveva Tortora. «Quell’esercito – avverte la Casellati – c’è ancora. Sta a tutti noi, istituzioni e liberi cittadini, sfilargli la maschera».
«Cosa ci ha insegnato il suo incredibile calvario umano e giudiziario? – si chiede anche il deputato di Forza Italia, Enrico Costa.- Temo che in pochi abbiano tratto insegnamenti da questa terribile vicenda. La politica ha speso (e spenderà anche oggi) tante parole, che non si trasformeranno in atti concreti. Basta osservare i numeri: dal 1992 a oggi, sono oltre 26mila le persone arrestate ingiustamente e poi indennizzate. Parliamo di pagamenti per oltre 700 milioni di euro. Errori per i quali continua a pagare solo lo Stato, non chi ha sbagliato. Continuare ad ammettere che chi priva ingiustamente una persona della libertà personale non paghi per il suo errore, continuare a pensare che gli errori giudiziari siano fisiologici non fa del nostro sistema giudiziario un sistema liberale e maturo».
La Legge è dolce come il miele per chi la comanda e amara come come il fiele per chi la subisce; mi verrà da ridere quando gli spaventapasseri dei nostri super dogati incominciano a pagare con le proprie tasche.