La morte di Braggion e il “monopolio della memoria” della sinistra
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo: Caro direttore, Memorie di un tempo che fu: l’altro giorno è morto Antonio Braggion e svariati giornali che ne hanno dato notizia hanno ricordato che fu l’“assassino” di Claudio Varalli, nel 1975. Altri hanno scritto più semplicemente che “uccise Claudio Varalli”, sottolineando, però, l’appartenenza del Braggion ad Avanguardia nazionale, il movimento sciolto dal ministero dell’Interno l’anno successivo. Un modo nemmeno tanto sottile per evidenziarne il “pericoloso estremismo”. Siamo sempre alle solite, al “monopolio del passato”, a causa del quale le “vittime” diventano “carnefici” e i “colpevoli” sono trasformati in “esempi civici”.
Prima, sinteticamente, i fatti: il 16 aprile 1975, dopo aver violentemente manifestato “per il diritto alla casa” in un quartiere di Milano, un nutrito gruppo di “extraparlamentari” di sinistra, tornando verso l’Università, s’accorge della presenza di tre militanti del Fuan che stanno volantinando; con le classiche “armi improprie” dell’epoca – spranghe e chiavi inglesi “Hazen 36” -, i “compagni” si gettano d’impeto sugli studenti missini che, visto l’esorbitante numero degli avversari, non possono che darsi alla fuga; dei tre, però, proprio il Braggion ha un handicap a una gamba e l’unica cosa che può fare è quella di rifugiarsi dentro la sua macchina. Col grande coraggio che notoriamente contraddistingueva i così detti “autonomi”, dato che i primi due ormai erano irraggiungibili, il gruppo di scalmanati si scaglia contro Braggion, devastando l’auto con le spranghe, nel palese tentativo di costringerlo a uscire e terminare l’opera. Come? Esattamente come un mese prima era stato fatto con Sergio Ramelli. Vista la mala parata e il rischio che sta correndo, Braggion, che deteneva illegalmente una pistola, quando capisce di non avere più scampo, esplode tre colpi, ferendo mortalmente Cladio Varalli. Qualche tempo dopo, tanto il Braggion quanto i “compagni” finirono in tribunale: il primo condannato due volte – per “eccesso colposo in legittima difesa” e “porto abusivo d’arma” -; gli altri bellamente assolti, dal momento che, tutto sommato, volevano solo “uccidere un fascista”.
Braggion dovette darsi prima alla latitanza e poi scontare la pena (alla fine ridotta a tre anni), per ricostruirsi faticosamente, ma con grande dignità, una vita tra minacce, insulti e l’etichetta di “assassino”; coloro che lo volevano morto, invece, poterono continuare la loro tranquilla esistenza; portare avanti gli studi; realizzarsi anche con un notevole successo, come accadde a Stefano Boeri, l’attuale notissimo urbanista. E il Varalli, che certamente perse la vita e pagò più duramente di tutti quella violenta follia – follia che, però, condivise quanto e più degli altri, essendo in prima fila nell’aggressione a Braggion – elevato a “martire” cittadino, con tanto di monumento che, proprio a Milano, lo ricorda come se fosse “un caduto” per una qualche “giusta causa”.
Perché ricordare tutto ciò? Perché questa storia milanese ha un non esile collegamento con la vicenda giudiziaria di Gilberto Cavallini, sulla cui scelta eversiva però e non poco un episodio analogo e analogamente distorto. Com’è stato ricordato, la “carriere criminale” di Cavallini iniziò con la morte di Gaetano Amoroso, proprio nel primo anniversario della morte di Sergio Ramelli e dello stesso Varalli. Anche quel 27 aprile del ’76 Milano fu teatro di durissimi scontri tra “rossi” e “neri”, coi primi che, in particolare, assediano lungamente la sede missina di via Guerrini. Verso sera, da lì, sotto una fitta sassaiola, riescono in una specie di sortita in auto a sgattaiolare due o tre auto, con a bordo meno di dieci giovani missini. Poche centinaia di metri e i ragazzi di destra incrociano un nuovo gruppetto di “compagni”, questa volta in pari numero, forse stavolta sono addirittura in vantaggio. Scendono dalle auto e ingaggiano una nuova colluttazione, nella quale uno dei missini – anche se la sentenza definitiva parla di due – sferra alcune coltellate, ferendo tre “compagni”, tra cui mortalmente l’Amoroso. Con una vittima di sinistra, la Polizia si muove subito e individua quasi in poche ore tutti i partecipanti allo scontro che, però, nell’aula di tribunale diventa una sorta di vero e proprio agguato, con durissime condanne, anche per Cavallini, il quale, da quel momento si dà alla latitanza e inizia a scivolare decisamente sulla strada dell’eversione. Insomma, quando si discute del possibile “concorso” di “apparati statali deviati” nella dinamica del “terrorismo nero”, prima di fare tanti voli pindarici, inquirenti e magistrati dovrebbero pensare primariamente a quei loro colleghi che, negli anni ’70, stravolgendo la lettera e lo spirito della Giustizia, vedeva sempre e solo “criminali neri” e sempre e solo “vittime rosse”. E a quel “circo mediatico”, tutt’ora esistente e attivo, in cui i “neri” sono sempre e ancora tutti o quasi “carnefici”, mentre ai “rossi” è riconosciuto lo status di “agnelli sacrificali” di una “strategia della tensione” volta proprio a impedirne l’“affermazione democratica”. Tanto nei casi ipocritamente eclatanti – quale fu quello che travolse Braggion – quanto in quelli certamente più controversi, quale fu l’episodio che segnò la vita di Cavallini. (la foto a corredo dell’articolo è tratta dal sito di Junio Valerio.blogspot. com)
Di sinistra che siano la fanno per lo più sempre franca. Guarda quanta solerzia nel preparare le carte per Matteo però. Ma verrà anche per loro il giorno del giudizio