Il Piave, una storia italiana: il 4 Novembre una vera festa nazionale
Riceviamo da Giuseppe Basini e volentieri pubblichiamo:
I giorni delle celebrazioni del centenario della vittoria nella prima guerra mondiale sono finiti. Ma si può parlare di vere celebrazioni, come quelle che in passato, per anni, abbiamo fatto? Credo purtroppo di no e allora penso che il 4 Novembre, per la sua importanza nel determinare il nostro modo di considerarci tra Italiani, debba tornare festa nazionale a tutti gli effetti, lo dobbiamo a noi stessi, alla nostra storia e ai nostri figli . E vediamo perché . “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio, dei primi fanti il ventiquattro Maggio” così iniziava quella “Canzone del Piave” che Giovanni Ermete Gaeta (E.A.Mario) scrisse proprio nei giorni finali del tentativo austriaco di sfondare definitivamente le nostre linee sul Piave e vincere così la Grande Guerra. Era il Giugno del 1918 e Gaeta scriveva mentre proseguiva la durissima battaglia di resistenza definita del Solstizio. Fu una canzone scritta di getto sull’onda dei drammatici avvenimenti, un inno alla resistenza senza alternativa, per difendere il nostro essere popolo, con la sua storia, la sua lingua, i suoi confini, nel momento in cui la nostra identità era di nuovo minacciata, dopo soli cinquant’anni di ritrovata unità nazionale. E dalla contemporaneità con i tragici eventi, con il rischio reale della sconfitta e dell’invasione, nasce il fatto che la canzone suoni realmente epica e ancora capace di suscitare fortissimi sentimenti, perché fu un vero grido dell’anima del compositore, che semplicemente rifiutava che potessimo scomparire come popolo e scritta proprio nel momento in cui sembrava ancora che ciò fosse possibile. La quarta strofa dell’inno, quella che inneggia alla vittoria e alla riconquista di Trento e Trieste, fu infatti aggiunta solo dopo, nel Novembre, dopo la vittoriosa conclusione. Armando Diaz, uno dei pochi generali capace sul serio di vedere nei suoi soldati degli uomini in uniforme, lo riconobbe in uno storico telegramma all’autore, in cui attribuiva a quella canzone, divenuta popolarissima tra le truppe, un vero grande contributo alla resistenza e alla vittoria. Ecco perché comincio col Piave questa rievocazione della Grande Guerra, perché nella poesia di E.A.Mario c’è la sintesi di un’intera epoca, dal Risorgimento ( nel rifiuto di tornare “come allora”) alla sua conclusione, con la fusione di un popolo avvenuta nelle trincee, dove centinaia di migliaia di Italiani del sud salvarono gli Italiani delle città del nord, non dalla barbarie degli austriaci (inesistente invenzione della propaganda bellica) ma dal tornare ad essere cittadini di serie b, come erano davvero (e per secoli) stati. Fu un’inutile strage, come disse Benedetto XV ? Certo che lo fu e la scomparsa degli imperi centrali non fu affatto un bene per la civiltà europea, ma peggio, molto peggio sarebbe stato per noi Italiani, perderla quella guerra, non da noi fatta scoppiare né voluta, ma che se avesse avuto un altro esito sarebbe finita con la fine dell’Italia, anziché dell’Austria-Ungheria. E d’altronde i milioni di borghesi, popolani e contadini, che furono strappati dalle loro vite e dai loro affetti, capirono in tutti i paesi l’importanza della posta in gioco, l’insipienza colpevole e disprezzata delle classi dirigenti, nel non evitare una guerra civile europea, non impedì infatti ai soldati di fare il loro dovere, consci che una sconfitta avrebbe aggiunto una catastrofe alla catastrofe. Sogni, progetti, amori andarono perduti nel fuoco della guerra, le vite normali furono sconvolte, ma imparammo perfino a riderci su – antico rimedio contro la paura – come nella storiella dell’ufficiale piemontese che, a guerra finita, a un ballo corteggiò una madamin, dicendole che la sua pelle era bianca come la neve dell’Adamello e le sue labbra rosse come il sangue dei nostri soldati e, chiestole il nome, si senti rispondere che il suo nome era ciò che i fanti sognavano in quei giorni gloriosi, al che lui suggerì Bernarda, per sentirsi rispondere, ma no, Vittoria. Sa di antico rosolio, ma i drammi personali, le famiglie distrutte, le giovinezze perdute, furono reali. Eppure non cedemmo, la grande maggioranza sentì che dovere, senso dell’onore, interesse nazionale, insomma l’etica di quei tempi, li spingeva, magari confusamente, verso una sola possibile risposta : non cedere. Sul Piave e poi a Vittorio Veneto, si compì un miracolo, ma non solo quello del valore, che gli Italiani hanno molto spesso dimostrato, dagli arditi ai paracaditisti, dai MAS della grande guerra ai siluri a lenta corsa della seconda, no il miracolo vero fu quello dell’organizzazione. Per la prima volta gli Italiani si dimostrarono capaci di coordinare le grandi unità, a livello di armate e di corpi d’armata, in un’azione corale tesa a distruggere l’esercito avversario. L’abilità dei capi militari, la risolutezza di un Re che seppe imporre, a Peschiera, agli stati maggiori alleati la decisione di arrestare il nemico sul Piave anziché arretrare ancora, l’umanità e la capacità strategica di Diaz, portarono allo straordinario risultato di un Italia capace di fare sistema in una grande guerra moderna. Ci sono memorie e documenti, che meriterebbero di essere menzionati nelle nostre scuole, che, ripercorrendo gli ultimi mesi di guerra, descrivono i preparativi della Germania per proseguire e vincere la guerra, grazie alle risorse in arrivo dalla sconfitta Russia, prostrata ma ricca di materie prime e alla progettata mobilitazione in massa di Polacchi a cui promettere in cambio l’indipendenza, la Germania insomma era tutt’altro che sconfitta sul fronte occidentale, però sopravvenne, grazie proprio a noi, il crollo del fronte austriaco. Ludendorff, il generale a capo, insieme a Hindemburg, dello stato maggiore Tedesco scrisse il 7 novembre 1919 al conte Lerchenfeld: “Nell’ottobre 1918 ancora una volta sulla fronte italiana rintronò il colpo mortale. A Vittorio Veneto l’Austria non perse una battaglia, ma la guerra e sé stessa, trascinando anche la Germania nella propria rovina. Senza la battaglia distruttrice di Vittorio Veneto noi avremmo potuto, in unione d’armi con la monarchia austro-ungarica, continuare la resistenza”. Quando i Tedeschi, a seguito della resa Austriaca (e del telegramma dell’Imperatore Carlo D’Asburgo, che comunicava di non poter più difendere il confine con la Baviera) cessarono l’occupazione del suolo francese e ripiegarono ordinatamente in Germania, al passaggio di alcuni ponti sul Reno le ragazze gettarono loro fiori, perché quello non era un esercito sconfitto sul campo, la guerra si era infatti risolta in Italia, con la sconfitta del loro alleato. Certo che si poteva e doveva evitare la guerra, ma questo nulla toglie all’onore, al valore, al coraggio, degli Italiani che seppero diventare Nazione vincendo la prova per sé e per gli altri. E’ strano il comportamento degli uomini, la nostra vita è limitata, lo è naturalmente e non ci possiamo fare nulla, eppure questa vita limitata a volte sembra acquistare senso proprio quando siamo disposti a perderla, per una causa o una situazione, che spesso non sappiamo definire, ma che quando si presenta in qualche modo sentiamo giusta. Così nascono gli eroi, che quasi mai sono i responsabili degli avvenimenti che li coinvolgono. All’epoca ovviamente non c’ero, ma gli echi di quegli avvenimenti ancora duravano quando ero bambino, mi ricordo distintamente quando i miei partirono con la macchina imbandierata per andare a Trieste per festeggiare la città che tornava all’Italia, avevo sette anni e l’eccitazione, il pathos, la felicità che sentivo, mi fecero capire che doveva essere qualcosa di importante. Di quel viaggio, mi resta un filmato otto millimetri in bianco e nero, con mia madre, le piazze piene di triestini con i tricolori, le navi italiane nel porto, delle scolaresche inquadrate, che riproduce meglio di qualunque discorso un’atmosfera, così come mi resta una registrazione su filo metallico della mia voce mentre canto l’inno del Piave. Fu una sorta di “imprinting” ? Certo, ma io di quell’imprinting sono enormemente grato ai miei genitori e spero di averlo saputo trasmettere ai miei figli. Ho sempre rispettato i patrioti di tutti i paesi, perché da mio Padre, ufficiale volontario in guerra e restato fedele al giuramento al Re, ho imparato a vedere e rispettare negli altri patriottismi il riflesso del nostro, mentre ho sempre nutrito una forte e istintiva diffidenza per coloro che premettono di essere contro ogni retorica (ho il sospetto che siano capaci di tutto) . Credo anche che i patriottismi si possano comporre in una unione che possa essere Patria comune e, anche se mi auguro tempi che non abbiano bisogno di eroi, spero che un giorno ci sia qualcuno capace anche di rischiare la vita gridando Viva L’Europa”, ma, pur se europeista convinto, mi è ancora molto difficile immaginarlo davvero e allora, attendendo, Viva l’Italia. Sempre.