A settant’anni dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, l’illusione egualitaria
Riceviamo da Mario Bozzi Sentieri e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
archiviate le celebrazioni per il settantesimo anniversario della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, vale la pena riprendere – mettendo da parte la retorica d’occasione – alcune questioni di fondo che sono alla base della Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella sua terza sessione, il 10 dicembre 1948 a Parigi.
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”: cosa si nasconde dietro le consolatorie parole del primo articolo della “Dichiarazione”? Può bastare qualche rassicurante affermazione di principio a dare gambe e sostanza all’idea di realizzare l’uguaglianza dell’Umanità? Parlare di uguaglianza significa sgombrare il campo da ogni retorica d’occasione (l’esatto contrario di quello che abbiamo ascoltato per le celebrazioni del settantennale) e da quel groviglio di contraddizioni e di falsificazioni che la questione porta con sé. A cominciare dall’idea che fu il Cristianesimo a sancire il dogma egualitario. In realtà la religione cristiana afferma la pari dignità degli uomini davanti al Padre Creatore, ma non per questo nega l’esistenza delle differenze tra gli uomini. Come in una famiglia, nella quale l’amore verso i figli non esclude la diversità tra loro. E’ l’esasperato egalitarismo di marca roussoviana, che ha spostato dalla dimensione sacrale a quella laica i confini della questione. Dall’al di là all’al di qua la prospettiva è ben diversa. Dal 1789 – con la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, frutto della Rivoluzione francese – “gli uomini nascono liberi ed eguali in diritto”. Il livello è ancora formale, ma è un passo decisivo, in grado di informare tutto il mondo occidentale. Il marxismo provò a “rettificarlo”, distinguendo tra “libertà formali” e “libertà reali”. Con quali risultati è noto. La Dichiarazione del 1948, nel sancire il valore universale del principio di uguaglianza, non è andata molto oltre. Le contraddizioni rimangono. La mancata applicazione è evidente anche in quei Paesi che hanno sottoscritto quei principi, mentre – nel frattempo – l’evidenza scientifica ne ha sconfessato la sussistenza.Preso atto – in sintesi – delle debolezze “strutturali” della “Dichiarazione dei Diritti” che cosa rimane, a settant’anni dalla loro stesura universalistica ? Intanto il tentativo di fare avanzare dietro il vessilli dell’egalitarismo una corrosiva omologazione di massa. Avanza l’individualismo e con esso la spoliticizzazione e la snazionalizzazione contemporanee. Il tentativo di fondo è di fare venire meno illusoriamente le differenze culturali tra i popoli e quello che può essere ben definito il diritto dei popoli alla cultura, nel nome di un’idea mediana dell’umanità (“La natura del liberalismo – scriveva Moeller van den Bruck – è l’umanità media e anche quel che vuole conquistare non è che è la libertà per ciascuno di avere il diritto di essere un uomo medio”). A ruota ecco il mercantilismo, degno corollario di un egalitarismo di massa che tutto omologa. Del resto, se l’economia è il destino planetario, ben vengano i “diritti” in grado di assimilare storie, culture, identità, economie diverse, nel nome di un grande mercato, in cui, alla fine, l’unica uguaglianza che conta è quella denaro. Con quali risultati ed ingiustizie di fondo è bene evidente, in un mondo segnato da un riduzionismo volgare e livellatore, dove allo svuotarsi delle appartenenze comunitaristiche a trionfare è un legale societario formalistico e disorganico.A ben leggere è un mondo più povero, spiritualmente più povero quello che ci ha consegnato l’anniversario della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”. Un mondo soprattutto in cui le opportunità individuali sembrano essersi ridotte, soffocate da un egalitarismo formale che ha portato solo scompensi, colmati da ipocrisie. Svelare queste ipocrisie, significa – per dirla con Giuseppe Prezzolini – ritrovare, “contro l’omogeneità sociologica, contro la fine della storia, contro l’entropia, contro la spersonalizzazione degli individui, delle famiglie, delle culture, delle civiltà”, quell’autentico pluralismo che costituisce la ricchezza del mondo.