Dieci anni fa moriva Giano Accame. Nel ricordo del figlio il bene che vince sul male
Anticipazione dal ricordo corale intitolato “Giano Accame – La vita, l’idea” edito da Eclettica edizioni, per il decimo anniversario della morte
Giano Accame nacque a Stoccarda nel 1928 dall’unione di un ufficiale di marina italiano con la tedesca Elisabeth von Hofenfels.
I suoi genitori, poco più che ragazzi, si incontrarono a Napoli nel bel mezzo delle due guerre mondiali. Coetanei, formali, colti, filiformi, si riconobbero subito, si piacquero e rimasero insieme oltre sessant’anni.
Elisabeth apparteneva ad una famiglia di antica nobiltà bavarese e parlava cinque lingue: il francese, l’inglese, l’ungherese oltre al tedesco e all’italiano. Orfana di madre, era cresciuta con il padre e la sorella in un castello vicino a Monaco di Baviera. Giano passa i primi anni della sua vita a Loano, in Liguria, in una famiglia di piccoli armatori, di comandanti di vascello, di navigatori. Gente abituata ad attraversare l’Oceano Atlantico come nulla fosse. Di mestiere trasportatori, spostavano merci dall’Europa alle Americhe e viceversa. Le loro navi erano velieri di legno, senza motore e strumentazione elettronica. Ogni viaggio di lavoro era un’avventura pericolosa. Ma forse neanche se ne accorgevano.
L’infanzia di Giano Accame, l’amore per l’epica
La casa degli Accame – loanesi da secoli – è un palazzetto affrescato a pochi metri dal centro del paese. Una specie di museo del marinaio, pieno di vecchie bussole, di pipe, di carte nautiche. I mobili delle camere da letto sono stati fatti dai maestri d’ascia con il legno iroko di una nave disarmata. Fuori c’è un giardino con l’orto, un albero di pepe, il cimitero dei cani. Ancora oggi non è cambiato nulla. Dal tetto sbuca la torre su cui il bisnonno di Giano saliva ogni giorno per controllare il mare. Il vecchio comandante studiava con rispetto quelle onde che possono essere generose, ma anche letali. Che allontanano per mesi padri e figli.
Bisognava ascoltare il vento e programmare il momento giusto prima di sfidare “quel mare così scuro – che un poco fa paura – e che non sta fermo mai”. Una formazione suggestiva, forte, salgariana, che avrebbe accompagnato Giano tutta la vita. Già vecchio e con molti libri all’attivo confesserà: «Il mio luogo ideale per scrivere sarebbe la cuccetta di una nave». L’infanzia in Liguria è un periodo felice. Sono gli anni delle scuole medie, delle nuotate ai Bagni Kursaal, delle prime amicizie, delle gite in montagna nella vicina Bardineto. Lassù si diverte, ci sono gli adorati cugini Baitone: Carlo, Lida e Lilli. Insieme vanno a pescare gamberi nelle acque trasparenti della Bormida. Giocano a carte davanti al camino. E verso la fine dell’estate si svegliano all’alba perché in quel periodo i colli del Melogno si riempiono di funghi porcini e si deve arrivare per primi. La scuola media di Loano è un grande palazzo liberty che nei giorni di mareggiata è bagnato dalle onde. È lì che Giano si appassiona alle leggende classiche e all’epica, amando più i troiani che i greci. Il suo eroe preferito è Ettore che combatte e muore sfidando l’imbattibile Achille.
Studia con orgoglio il potere e la grandiosità dell’antica Roma. Le imprese di un esercito che parte dall’Italia e conquista tutto il mondo. Si esalta per le gesta di Muzio Scevola, di Scipione l’Africano, di Cincinnato.
Le prime amicizie destinate ad essere “per sempre”
Giano è un bambino magro, educato, fantasioso. Mostra fin da subito una grande passione per lo studio e la lettura. Come rimarrà anche da adulto è timido, riflessivo, riservato. Manifesta con parsimonia i suoi sentimenti, le intime gioie come le sofferenze. Nel pomeriggio, finiti i compiti, va a far merenda in spiaggia con una fetta di focaccia. Forma un gruppo con tre ragazzini: Pierino Varosio, Piero Turrini e Vito Mazzitelli. A guardarli, tutti e quattro, sono diversi tra loro. Uno di buona famiglia, l’altro più semplice. Chi alto, chi basso. Uno meridionale, gli altri del nord. Sembra che abbiano poco in comune. Invece nasce un’amicizia bellissima e un sodalizio politico che durerà tutta la vita. La famiglia Accame però non sempre vive a Loano. A cominciare dalla metà degli anni Trenta si trasferisce al seguito del padre, che viene “comandato” prima a La Spezia e poi a Spalato, in Dalmazia. Sia il nonno di Giano, Nicolò, che il papà Nicola furono ufficiali di carriera nella Marina Regia. Il primo ammiraglio di Stato Maggiore, il secondo contrammiraglio del Genio. Entrambi passano più tempo a bordo che sulla terraferma.Anche Giano sarebbe stato destinato all’Accademia Navale di Livorno se non fosse arrivata l’esperienza che lo segna per sempre: la guerra persa.
A 16 anni si arruola nella Repubblica Sociale Italiana
Adolescente ferito dal sogno infranto di una grande Italia si ribella “allo spettacolo dei voltagabbana” e si arruola appena sedicenne nella Repubblica Sociale Italiana. Parte per Salò proprio il 25 aprile del 1945. Un tempismo paradossale per il quale imbraccia il fucile di mattina e già la sera viene arrestato. Mentre un altro ragazzo al suo fianco sarà giustiziato.
Il giovanissimo Giano prova il brivido amaro della sconfitta. Gli è chiaro fin da subito di aver scelto “la parte sbagliata”, quella dei vinti. Ma il rischio della morte fa meno paura della vergogna e del disonore: «Divenni veramente fascista dall’8 settembre in poi, quando vidi che tutti scappavano». Anche suo padre sceglie di arruolarsi con i combattenti della Repubblica sociale e per questo dopo l’armistizio viene espulso dalla Marina Militare. Una sentenza senza appello. Nel dopoguerra – essendo ingegnere navale – si guadagna da vivere dirigendo cantieri, prima all’estero e poi in Italia. Nel suo cuore però resta sempre e fortemente un militare: «Un buon ufficiale – diceva – è quello che ha le qualità per essere intransigente con i suoi superiori e comprensivo con chi gli sta sotto in grado». Conservò la sua divisa da ammiraglio per mezzo secolo e con essa si fece seppellire. Formato in questa cultura, Giano Accame non poteva non avere nel sangue il culto della fedeltà. Ma il suo senso dell’onore, il suo essere fascista, quello per il quale avrebbe voluto morire adolescente, non era fatto né di razzismo né di violenza: era amor di Patria, senso dello Stato, romanticismo risorgimentale, desiderio profondo di giustizia sociale, avversione alla finanza che crea pochi ricchi e troppi poveri. Tra i ragazzi di Salò è uno di quelli che maggiormente si sforzarono non solo di dare giusta dignità al passato, ma di immaginare e progettare un futuro di pacificazione nazionale. Tra le tante iniziative in tal senso è bello ricordare il Manifesto di Toirano scritto a quattro mani con la figlia Zizzi: uno sforzo per rispettare i combattenti delle due parti e per storicizzare le ragioni proprie e le altrui.
Gli anni successivi alla guerra, l’impegno nel Msi
Finita la guerra Giano Accame va a studiare a Genova, dove in quattro anni si laurea in giurisprudenza. Nello stesso periodo comincia a fare politica col Msi di cui diventa rapidamente uno dei massimi dirigenti. Nel suo gruppo di militanti genovesi ci sono il cugino Franco Accame, Piero Vassallo e Sergio Pessot. Lo seguono, lo aiutano, gli sono complici. Questo stesso drappello di attivisti si sposterà armi e bagagli nella corrente dei “figli del Sole”, facendo gruppo con Enzo Erra, Pino Rauti, Carlo Costamagna, Pino Romualdi. Tra i giovani missini Giano stabilisce legami di comune avventura politica e di profonda amicizia. Quei ragazzi sono una minoranza ghettizzata e orgogliosa di andare controcorrente. Si lega in particolare con l’umbro Franco Ficarelli e col pisano Beppe Niccolai. Per Ficarelli – eterno scapolo e guascone – ha una tenerezza da fratello maggiore. Insieme vanno in trattoria, si divertono, partecipano ai comizi, bevono vino rosso e parlano di politica fino a tarda notte. Qualche volta capita anche una scazzottata con i comunisti. Sono molto uniti, Franco è uno di famiglia. Con il “nobile e ghibellino” Beppe Niccolai l’architrave del rapporto è il rispetto e l’affinità intellettuale.
Appena terminato il corso di laurea Giano lascia Genova e parte per il servizio militare. Dopo alcuni mesi si trasferisce a Roma e ancor prima di terminare la leva comincia la carriera di giornalista. Tra le prime esperienze giovanili collabora con il mensile “Tabula rasa”. Passa poi al Borghese, dove sarà inviato e responsabile della redazione di Firenze. Nel capoluogo toscano affitta una stanza a Campo di Marte. Non c’è neanche la cucina, tanto a pranzo ci si arrangia in redazione, mentre la sera si va in qualche trattoria con i camerati toscani. Le preferite sono “il Coco Lezzone” famoso per le bistecche e “il Troja” imbattibile per la ribollita. A tavola molti sono giornalisti, scrittori, politici. Spesso al gruppo si uniscono anche alcuni artisti. Tra questi due pittori talentuosi: Sigfrido Bartolini e Luciano Guarnieri. Nell’estate del 1959 torna a Loano e il cappellano militare fra’ Ginepro gli propone un appuntamento per conoscere Carlo Delcroix anche lui in riviera per le vacanze estive. Delcroix è un eroe della prima guerra mondiale, poeta, scrittore, oratore, presidente dei mutilati di guerra. Uno che a diciotto anni ha perso le mani e gli occhi al fronte combattendo contro gli austriaci. È un mito, un uomo apprezzato da Ezra Pound e da Gabriele D’Annunzio. L’incontro va oltre ogni aspettativa anche perché Delcroix si presenta all’appuntamento in compagnia della figlia Rita, bellissima, di cui Giano si innamora immediatamente. Tra i due è un colpo di fulmine: dopo il primo incontro loanese si vedono a Firenze, poi a Roma. Si scrivono molte lettere, sono impazienti di vivere uniti e infatti si sposano nel giro di soli sei mesi.
Il matrimonio e la nascita dei figli
Le nozze sono a Sant’Agnese a Piazza Navona nel 1960. I due sposi sono entrambi alti, con gli occhi chiari, bellissimi. Il loro giuramento reciproco è una grande festa che unisce una famiglia di monarchici e una di repubblichini. Tra gli altri doni Giano riceve dai genitori cinquecentomila lire, lui non apre neanche la busta e la consegna intera a un amico – pescatore loanese – che aveva perso un braccio combattendo con la Decima Mas.
Dalle nozze passano pochi mesi e nasce Barbara. È la prima dei tre figli, quella che più di tutti assomiglia al padre. Nel viso, nel carattere, nelle movenze, nell’eleganza e nel senso della fedeltà. Mezzo secolo più tardi, proprio con la primogenita Barbara, Giano – ormai ottantenne – organizzerà la sua ultima manifestazione culturale: una mostra-convegno sul complesso sportivo del Foro Italico. Insieme a loro lavora Giorgio De Angelis, bravissimo grafico e organizzatore. Oltretutto Giorgio, con le sue spalle da rugbista e una faccia che sembra scappata fuori da un manifesto di Boccasile, è perfetto tra le statue del Foro italico. Dopo il matrimonio Giano si sposta a Roma e per i primi mesi è ospite dei Delcroix. La padrona di casa è la moglie di Carlo, Cesara Rosso di San Secondo.
I suoceri sono persone affettuose, con una vita e delle personalità fuori dal comune. A Giano Accame piace ricordarli così: «Carlo Delcroix era un uomo che non si è mai arreso. I tre figli e gli otto nipoti, in fondo, non si resero mai perfettamente conto della sua invalidità. Di eccezionale in lui avvertivano piuttosto l’animo poetico, che non la gravità delle menomazioni fisiche. Scherzava volentieri, si interessava di tutto ed anche l’intelligenza non la faceva pesare. Non ci sarebbe riuscito se non avesse incontrato una donna altrettanto eccezionale, che gli sostituì le mani e gli occhi per il resto della sua esistenza. Vissero in simbiosi ed è impossibile ricordare l’uno senza ricordare la virtù italica della figura bella, slanciata, elegante che gli fu sempre accanto».
La casa al Lungotevere dei Mellini
Dopo alcuni mesi di convivenza Giano e Rita cominciano a cercare una casa tutta loro. Girano un bel po’ per la Capitale. Rita ama il verde di Villa Borghese e di Piazzale delle Muse. Giano invece spinge per stare più in centro. Vuole vedere Roma dalla finestra e muoversi a piedi. Alla fine approdano a lungotevere dei Mellini, sono felici e non si sposteranno mai più. La vista è spettacolare, si vede il grande fiume sacro, palazzo Medici, l’Altare della Patria e il Pantheon. Le cupole di San Rocco e San Carlo sono in prospettiva una dietro l’altra. Giano e la moglie Rita sono entrambi scrittori e lettori compulsivi, in breve l’appartamento è completamente invaso da libri. È una casa movimentata, piena di ospiti, si cucina a tempo pieno. Ai fornelli si alternano due donne benigne: Eva e Pina, ribattezzate “gli angeli del focolare».
Nello studio di Giano passano un po’ tutti gli intellettuali della Destra italiana ed europea. Il più assiduo è Niccolai. Viene a pranzo portando sempre in dono una grande scatola di cioccolatini per la gioia dei bambini. Niccolai mangia in fretta e subito dopo il caffè – inesorabile – tira fuori un taccuino e comincia a scrivere. Nelle stanze accanto i tre figli di Giano – Barbara, Zizzi e Nicolò – invitano un mucchio di ragazzini. La casa è un porto di mare. Fanno allegra compagnia un numero importante di cani e di gatti.
Il “cammino per il mondo”
Alla fine degli anni 50 era esplosa la vena provocatoria e anticipatoria di Giano Accame, che prima si era allontanato dal Msi e poi, molti anni dopo, dal Borghese, prendendo posizioni radicalmente diverse sul tema della contestazione giovanile che lui vedeva con favore.Per essere più precisi è il novembre del 1956 quando lascia i camerati missini. La rottura avviene durante il tempestoso congresso di Milano: «Accame – racconta Niccolai – se ne andò in punta di piedi. Ansioso di superare vecchi steccati lasciò la politica militante per intraprendere una lunga peregrinazione. Un cammino umano e politico, che come giornalista doveva portarlo a conoscere una trentina di paesi del mondo». Fra i tanti viaggi partecipa come inviato al conflitto arabo-israeliano durante la guerra dei sei giorni. Visita i kibbutz. Si incuriosisce degli ebrei nazionalisti, combattenti, militari. Dal Sinai racconta le battaglie di quella guerra lampo. Descrive l’aviazione israeliana che attacca a sorpresa la più potente flotta egiziana annientandola in poche ore. Come nella Bibbia vince Davide contro Golia.
Accame diventa, primo fra tutti a destra, sostenitore di Israele e non ha remore a definire l’antisemitismo «una vergogna». Caso davvero singolare per un fascista, gli viene dedicato un albero nel Giardino dei Giusti di Gerusalemme. Lasciato il Borghese si inventa redattore economico per Il Fiorino. Poi passa al Settimanale. Collabora anni con la rivista presidenzialista di Randolfo Pacciardi Nuova Repubblica. Insieme a Pacciardi e ad Edgardo Sogno immaginano con troppo anticipo una democrazia più solida, maggioritaria e presidenzialista. Si ispirano al gollismo francese. Ma i tempi, dicevamo, non sono ancora maturi per questi temi: verranno accusati di golpismo e messi all’angolo . «Giano – commenta Pietrangelo Buttafuoco – è sempre arrivato prima, è stato un anticipatore, uno spirito libero, un visionario, un incursore del pensiero. Questo suo andare oltre gli ha tirato addosso l’astio dei vecchi tromboni conservatori».
Accame allora comincia una nuova esperienza con il quotidiano Italia Oggi e con questo gruppo editoriale ha l’occasione di organizzare una mostra al Colosseo: “L’economia italiana tra le due guerre”. Un evento straordinario per rigore filologico e materiali esposti, che ancora oggi in tanti ricordano. Riesce a celebrare l’eccellenza italiana del Ventennio – sul palcoscenico più bello del mondo – senza farsi tacciare di revisionismo. L’esposizione venne addirittura inaugurata dal presidente partigiano Pertini; doveva durare due mesi e andò avanti per un anno, tra file interminabili di visitatori. Alla vigilia della mostra Roma era ancora una città dove i ragazzi potevano morire sprangati nei quartieri sui temi del fascismo e dell’antifascismo. L’evento del Colosseo aiutò a consegnare alla storia questi temi e non vi fu un solo incidente.
L’arrivo come direttore al “Secolo d’Italia”
Allo stesso tempo assieme a Gaetano Rasi ed Epicarmo Corbino collabora agli “Annali dell’economia italiana, dall’Unità ai giorni nostri” un’opera enciclopedica, in 26 volumi, edita da Ipsoa. Nel 1989, dopo tanti anni, Accame si riavvicina al mondo del Movimento sociale italiano perché Gianfranco Fini lo nomina direttore del Secolo d’Italia. Non fa a tempo a sedersi e spacca immediatamente un mondo composto da due anime: da una parte i “fascisti di sinistra” e dall’altra il gruppo più conservatore. Il 31 dicembre del 1989 firma una memorabile prima pagina del Secolo con una foto di Gianfranco Fini che tiene in braccio una bambina di colore. Il titolo a nove colonne è “Solidarietà”. Una scelta che Accame spiega così: «La Destra si rifiuta di cadere nella trappola di chi le assegna il ruolo di cavalcare il malumore razzista. La bontà, la capacità della compassione, sono tipiche qualità italiane degne sopra ogni altra cosa di essere preservate». Forse la sua direzione è troppo anticonformista e poco pratica. O più probabilmente non lo aiuta il suo carattere per nulla abile nelle pubbliche relazioni. Sta di fatto che l’esperienza al Secolo termina abbastanza presto, nel 1991. Viene pensionato suo malgrado per logiche di partito e sostituito da un deputato palermitano.
Le collaborazioni e i libri
Giano tuttavia è pieno di energia. Continua a scrivere senza sosta. Collabora al settimanale cattolico il Sabato con una rubrica di controinformazione economica titolata non a caso “Bankiller”. La sua firma non manca a un solo numero dei periodici della Cisnal/Ugl, “Pagine libere” e “La Meta Sociale”. Pubblica vari libri tra i quali “Una Storia della Repubblica” con Rizzoli e “Ezra Pound economista”. Il suo editore preferito è pero’ l’instancabile Enzo Cipriano di Settimo Sigillo con il quale mandano in stampa, tra gli altri, Il fascismo immenso e rosso.
Intanto trova una casa ideale e naturale al mensile “Area”, la rivista della Destra sociale che egli stesso anima, con Francesco Storace, Gianni Alemanno e Marcello de Angelis. La sua attività pubblicistica è incessante attraverso vari decenni. Ma definire Giano Accame solo come giornalista e scrittore è riduttivo. Lo spiega bene il suo caro amico e collaboratore Luca Gallesi: «Per Giano la scrittura e il giornalismo sono state soprattutto attività indirizzate a un dovere ideale. La sua militanza infatti si manifestò altrettanto efficace nella partecipazione a convegni, nell’organizzazione di mostre ed eventi, nell’incoraggiamento di chiunque gli chiedesse aiuto e consiglio. E, infine, nella realizzazione della più straordinaria opera multimediale prodotta da un uomo di Destra: “Le Intelligenze scomode del Novecento». Gallesi si riferisce ad una serie di monografie dedicate a grandi intellettuali o fascisti o accusati di fascismo. Con questa opera Accame propone al grande pubblico i profili e l’opera dei maggiori personaggi di destra del Novecento. Dopo mezzo secolo di ostracismo e di oblio la televisione pubblica alza dunque il sipario su nomi come Curzio Malaparte, Leo Longanesi, Louis Ferdinand Celine, Giovanni Gentile, Luigi Pirandello, Filippo Tommaso Marinetti, Gabriele D’Annunzio, Italo Balbo, Giuseppe Bottai, Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Gino Boccasile, Ottavio Rosai, Giuseppe Prezzolini, Mario Sironi, Guglielmo Marconi, Berto Ricci, Carl Schmitt, Alessandro Blasetti, Julius Evola, Ernst Junger, Ezra Pound. Un’ operazione di verità, di giustizia e di cultura fino a quel momento difficilmente immaginabile. Alla fine degli anni novanta c’è una grande e fortunata novità: entra a far parte della famiglia Accame anche Giuseppe Dimitri, che si lega e si sposa con Barbara, la figlia di Giano. Insieme avranno una figlia, Matilde. Giuseppe è un personaggio arcinoto del neofascismo romano. E’ stato fondatore di Terza Posizione ed ha pagato la sua militanza con lunghi anni di carcere. Tra i giovani che fanno politica a destra è considerato un mito, un puro, un idealista. Il suo soprannome è “il Comandante”. Giuseppe è orfano di entrambi i genitori. Anche per questo viene rapidissimamente integrato dagli Accame. Oltretutto ha un carattere molto simile a Giano: si apprezzano, si stimano, si vogliono bene fin da subito.
La cultura, i dibattiti, le riflessioni
Per un tragico gioco del destino Dimitri morirà prematuramente in un incidente stradale. E tocca proprio a Giano, nello strazio generale, il compito di ricordarlo in chiesa durante il funerale: «L’abbiamo accolto, amato, continueremo ad amarlo come un figlio, un fratello, il padre di Matilde la nostra amata nipotina. Ma il nostro ricordo non può essere, e non è, solo privato. È il ricordo di famiglie severamente impegnate nel culto delle stesse idee, abituate a sacrificarsi di persona servendo la storia». Nel 2005 Francesco Storace e Andrea Augello sono rispettivamente presidente ed assessore al bilancio della Regione Lazio. Di gran lunga i più autorevoli e “missini” di quel governo. Sono gli anni d’oro di Alleanza Nazionale. C’è gloria per quasi tutti nel Centrodestra italiano. Accame, invece, è tenuto ai margini.
In quello stesso anno cade il novantesimo anniversario della prima guerra mondiale. Storace e Augello sono amici di Giano, lo stimano. Non hanno mai perso i contatti. Vanno a trovarlo a Lungotevere dei Mellini e gli propongono di coordinare una mostra a Roma ed un libro-catalogo commemorativo. Giano accetta con entusiasmo. Realizzerà insieme al noto storico dell’arte Claudio Strinati un evento raffinato, tessendo in un unico grande arazzo la storia, l’arte, la tecnica, le memorie dimenticate e i sacrifici degli eroi italiani sul Piave. La mostra “A 90 anni dalla Grande Guerra, arte e memoria” sarà visitata da decine di migliaia di persone e richiamerà studenti da ogni regione italiana.
Giano Accame col passare degli anni viene invitato sempre più spesso a presentare i suoi libri e a parlare a dibattiti. Gira in ogni angolo d’Italia. Partecipa a numerosi eventi anche all’estero aiutato dal parlare correntemente il francese e il tedesco. È una delle attività che fa più volentieri. La sua platea – racconta divertito – è composta per la maggior parte da nonni e nipoti. Un giorno di primavera viaggia verso sud con il più giovane amico Fabio Andriola. Presenteranno a Napoli un libro dello stesso Andriola sulla guerra del golfo di cui Giano ha curato la prefazione. Si fermano poche ore e poi si separono perché Accame prosegue per Vibo Valentia dove è atteso per un altro appuntamento.
Arriva stanco dal lungo viaggio, divora un panino e comincia il suo discorso. Così lo ricorda lo scrittore Vittorio Cappelli: «Ascoltai Giano in un intervento colto ed elegante. Non amava il proscenio, come altri intellettuali postfascisti rapidamente berlusconizzati. Preferiva piuttosto percorrere sentieri impervi lungo i quali era spesso portato al dialogo con gli avversari che egli non considerava mai nemici. Non a casa “l’Unità” lo ha chiamato il fascista gentile, trasversale, dialogante».
Gli ultimi giorni di Giano Accame
Accame alto, austero, si presenta quella sera a Vibo Valentia con un vecchio vestito grigio sotto al quale indossa una camicia nera. Qualche ora dopo il suo intervento ha un collasso improvviso e si accascia al suolo. Devono portarlo di corsa in ospedale. Ma il giorno dopo è di nuovo al convegno. Uno storico vicino alla destra, Giuseppe Parlato, lo apostrofa dicendogli che aveva tentato inutilmente di morire in camicia nera. Accame sta allo scherzo, ride di gusto con tutta la platea, ma in realtà conserva quella camicia nera per il suo ultimo giorno. A dicembre del 2015 aveva da poco compiuto ottanta anni. Raramente si è visto un anziano così lucido, bello, allegro, in forma.
Poco prima della vigilia di Natale cominciò a tossire, si mise a letto, si ammalò. Capimmo fin da subito che non ci sarebbe stato nulla da fare, ma non la rapidità con la quale quel male lo avrebbe portato via. La malattia durò in tutto quattro mesi. Eppure anche quelli furono giorni belli. La casa sul lungotevere si trasformò in un pellegrinaggio di amici che volevano salutarlo. Lui fece sempre finta di non capire nulla e non mostrò il minimo malumore o segno di cedimento. Anzi lavorò alacremente al suo ultimo libro “La morte dei Fascisti”. Addirittura progettò uno studio sull’arte sacra futurista. Complici gli antidolorifici e la morfina si sciolse un pochino dalla sua riservatezza e dal pudore. Così l’ultima sera riuscimmo a dirci quelle parole amorevoli che troppe volte un padre e un figlio si tengono dentro per sempre. Lo vidi particolarmente felice e gli chiesi il perché. Mi rispose con poche parole, sereno, sorridendo: «Vedi, alla fine il bene vince sempre sul male». Ultimo colpo di genio di un uomo vissuto sempre dalla parte “sbagliata”. Giano Accame ha avuto tre figli e cinque nipoti: Virginia, Giano junior, Matilde, Leone e Otto. Tutti lo hanno amato teneramente. Sua moglie, dopo la sua morte, non è mai più riuscita ad essere felice. Ad ogni pranzo di famiglia parlava di lui e finiva per commuoversi. Noi figli abbiamo provato affettuosamente a rimproverarla, consolarla, a darle una prospettiva nuova. Ma lei senza Giano non ha mai più apprezzato le cose belle della vita.
La sua eredità morale, il suo insegnamento…
Accame è stato un uomo rispettato, sia dai suoi amici sia dai suoi avversari. Era un signore garbato. Ma allo stesso tempo schietto e di pochi fronzoli. Pur essendo circondato da persone che lo stimavano fu incapace di stabilire relazioni interessate. Non ha mai guidato l’automobile, non ha mai posseduto un telefono cellulare. Di contro sapeva usare bene il computer ed ha scritto fino all’ultimo istante con la lucidità e l’entusiasmo di un ragazzo. Anche per questo era molto amato dai giovani.
Coraggioso e intellettualmente sfrontato si è trovato spesso solo. Ha passato periodi di disoccupazione e di piccole ansie economiche. Era parco con se stesso come sanno essere solo i liguri. Invece era assai generoso con gli altri. Quando è morto aveva sul conto solo poche lire. Ma la sua eredità morale, la sua dignità, il suo insegnamento hanno ben altro valore. Come suo padre e suo nonno, riposa nel piccolo cimitero di Loano. Se un camposanto può essere un luogo bello, quello lo è. A nord si stagliano le Alpi liguri, spesso sferzate dalla tramontana, mentre da sud nei giorni di scirocco arriva l’aria del mare. Sopra a Giano campeggia una croce bianca sulla quale è scolpita una frase di Giovanni Gentile: “Per quest’Italia, noi ormai vecchi siamo vissuti. Di essa abbiamo parlato sempre ai giovani. Accertandoli ch’essa c’è sempre stata nel cuore. E c’è immortale”.
Sarebbe interessante riprodurre in vista del 25 aprile il “Manifesto di Toirano”, elaborato da Giano Accame.