La bufala della trattativa Stato-mafia: ecco, punto per punto, come viene smentita dal generale Mori

28 Apr 2019 15:17 - di Redazione

“Non vi è prova che i contatti tra carabinieri del Ros e Vito Ciancimino si sostanziarono in una ‘trattativa’ tra lo Stato e la mafia”, “anzi vi sono le prove contrarie”. E ancora. “Il giudice che ha emesso la sentenza non ha creduto a Massimo Ciancimino e al ‘papello’ consegnato dallo stesso”. E sulla sostituzione ai vertici del Dap tra Nicolò Amato e Adalberto Capriotti, avvenuta nel giugno 1993, è “emerso in modo cristallino come gli autori dell’avvicendamento siano stati Scalfaro, Conso ed i cappellani carcerari” e “non il generale Mori”.

A un anno esatto dalla sentenza di primo grado del processo sulla trattativa tra Stato e mafia, prende il via domani il processo d’appello che vede ancora alla sbarra, tra gli altri, l’ex capo del Ros, il generale Mario Mori che in primo grado venne condannato a 12 anni di carcere, come il capitano Giuseppe De Donno, ad 8 anni. La difesa dei due ufficiali, in vista dell’appello, rilancia. E rivela all’Adnkronos tutti i punti su cui Mori e i suoi avvocati ribatteranno per dimostrare l’estraneità del generale alle accuse contestate e alla condanna subita.

Al processo trattativa, in primo grado, venne condannato a 28 anni di carcere anche il boss mafioso Leoluca Bagarella – e la Procura ne aveva chiesti 16 – a 12 anni l’altro mafioso Antonino Cinà, a 12 anni l’ex senatore Marcello Dell’Utri. E poi 12 anni al generale Antonio Subranni e a Massimo Ciancimino, superteste creduto ma ‘bacchettato’ dagli stessi giudici.

La fake news sulle mancate proroghe del 41bis per la trattativa

La difesa del generale Mori punta sugli aspetti “più controversi”, del processo.

Al primo punto c’è la mancata proroga dei 41 bis, cioè il carcere duro, per un gruppo di detenuti accusati di mafia. Per Mori e per i suoi difensori un dato incontrovertibile dimostra che le mancate proroghe dei 41 bis, operate da Conso nel novembre 1993, non furono dovute ad alcuna “trattativa”, tuttavia taluni documenti sono stati ignorati e Mori è stato tacciato di essere, da sempre “geneticamente deviato”, ancorché nel 1973, mentre era al Sid, sventò un attentato di matrice palestinese ad un aereo israeliano, “salvando tante vite e, per questo, ebbe un encomio solenne”.

Nessuna minaccia nei confronti del governo

Il reato contestato al generale Mario Mori e al capitano De Donno è quello di minaccia a corpo politico dello Stato, quindi al Governo, come prevede l’articolo 338 del Codice penale. “Perché esso possa configurarsi”, per la difesa è necessario che la minaccia giunga a destinazione e venga, quindi, percepito dalla vittima, vale a dire – nel caso specifico – il governo; “viceversa non esiste alcuna minaccia nei confronti del soggetto passivo, ossia il Governo stesso”.

In primo grado la difesa aveva posto a tutti i testi che all’epoca ricoprivano incarichi istituzionali e di Governo, da Giuliano Amato a Luciano Violante, da Claudio Martelli al Prefetto Gianni De Gennaro, “quindi le asserite vittime”, la stessa domanda: “Avete ricevuto minacce dal capitano De Donno o dal generale Mori?”.

Le risposte di tutti i testi, fanno presente i difensori, si sono concretizzate in una serie di “No””. E quindi, la minaccia, per Mori non è sicuramente giunta a destinazione o, a tutto voler concedere, “non lo è giunta tramite gli ufficiali dei carabinieri e, quindi, si è nella impossibilità di configurare il reato e comunque di addebitarlo ai carabinieri.

Prove contrarie a quanto sostenuto dall’accusa su Ciancimino

Secondo punto della difesa, l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, padre del superteste Massimo Ciancimino.

Vito Ciancimino non avrebbe parlato “né di asserite ‘spaccature’ tra i boss Riina e Provenzano, né in occasione degli incontri con gli ufficiali del Ros, né negli interrogatori resi nel 1993 ai dottori Caselli ed Ingroia e prodotti dalla difesa dei Carabinieri”.

Per gli imputati mancherebbe, quindi, la prova che il generale Mori avesse quelle conoscenze addebitategli e che le abbia portate a Di Maggio. “Anzi, esistono, come detto e ridetto, le prove contrarie”.

E ancora. Secondo l’accusa, il generale Mori e De Donno avrebbero contattato Vito Ciancimino su incarico di Subranni, a sua volta “indotto dall’onorevole Calogero Mannino”, il quale, per salvarsi la vita avrebbe chiesto a Subranni di attivarsi in qualsiasi modo.

Anche qui, per Mori e De Donno, manca però la prova che Mannino abbia sollecitato iniziative a Subranni.

La sentenza mai acquisita dai pm sulla strage Borsellino

Nel processo ‘appello che prenderà il via domani si ripercorrerà tutta la vicenda riguardante proprio l’uccisione di Paolo Borsellino.

Il giudice fu ucciso per la “trattativa” tra Stato e mafia, come titolato da tutti i giornali il giorno dopo il deposito della sentenza?

I legali di Mario Mori spiegano all’Adnkronos che “le prove acquisite sono tutte contrarie alla tesi” secondo cui la strage Borsellino sarebbe stata accelerata dalla trattativa.

“La conclusione secondo cui il dottor Borsellino fu ucciso per la “trattativa” è stata raggiunta grazie a rilevanti lacune probatorie” in quanto non è stata ammessa una sentenza della Corte di Assise di Catania, ormai passata in giudicato da anni che collega la strage all’interessamento di Borsellino per le indagini del Ros sugli appalti e alla possibile nomina a Procuratore Nazionale Antimafia; quella sentenza è stata, peraltro, acquisita nel processo “Borsellino Quater” che è pervenuto alle stesse conclusioni dei giudici di Catania.

Ma i giudici di primo grado del processo trattativa non la pensano così.

Nelle motivazioni, depositate tre mesi dopo la sentenza, proprio il 19 luglio, giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio, il Tribunale ha scritto che “l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottor Borsellino” fu determinata “dai segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Ameliio”.

Per i giudici del processo Trattativa Stato-mafia, “non vi è dubbio” che i contatti fra gli ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno con Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel ministro dell’Interno che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato”. Domani comincia il processo di secondo grado. Prevista la relazione introduttiva del giudice a latere del dibattimento. E poi si entra nel vivo.

Il dossier “mafia e appalti” e la smentita sulla “doppia refertazione”

La difesa del generale Mario Mori rilancerà inoltre anche sul dossier su ‘mafia e appalti’.

E’ un’indagine che fu avviata dai Carabinieri del Ros nel 1989 sotto la direzione del dottor Falcone. Essa aveva ad oggetto la illecita gestione degli appalti pubblici e, in essa, erano coinvolti politici, imprenditori e appartenenti alla mafia. Ma quale fu il problema che determinò contrasti tra il Ros e la Procura di Palermo?

Secondo la Procura, i Carabinieri del Ros avrebbero operato la cosiddetta “doppia refertazione”, ossia “avrebbero consegnato, nel 1991, alla Procura di Palermo, nelle mani del dottor Falcone, un’informativa nella quale non vi erano le intercettazioni dalle quali emergevano i nomi dei politici. L’informativa completa, comprensiva anche dei riferimenti ai politici sarebbe stata consegnata, tempo dopo, e dopo l’uccisione del dottor Borsellino, alla Procura di Catania”.

“La tesi della “doppia refertazione” è stata sostenuta da tutti i magistrati escussi, sebbene con alcune differenze tra loro (taluni hanno parlato di “differenze tra la informativa consegnata a Palermo e a Catania”, altri di un “Rapporto del Ros in versione completa consegnato al Procuratore di Palermo Giammanco che lo mise in cassaforte e che non lo diede ai sostituti”)” ma è smentita da due documenti provenienti da De Donno e che recano la firma di Giovanni Falcone e Guido Lo Forte. Documenti che la difesa dei Carabinieri ha chiesto di produrre ma che la Corte non ha ammesso perché ritenuti superflui.

La vicenda del pregiudicato Paolo Bellini e le opere d’arte da recuperare

Altro punto della difesa Mori, la vicenda di Paolo Bellini, un pregiudicato, di origine romagnola, il quale, nella primavera-estate del 1992, conosce, presso un antiquario, il Maresciallo Tempesta, del Nucleo Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Artistico. Quest’ultimo chiede al Bellini informazioni su alcune opere d’arte rubate alla Pinacoteca di Modena, al fine di recuperarle.

Bellini, qualche tempo dopo, contatta il Tempesta e gli propone il recupero di altre opere d’arte, diverse da quelle trafugate a Modena, chiedendo in cambio gli arresti ospedalieri per 5 boss mafiosi (Bernardo Brusca, Pippo calò, Giuseppe Giacomo Gambino, Giuseppe Marchese e Luciano Liggio indicati nominativamente in un foglietto di carta), più l’aggiustamento di un suo processo in Cassazione e 200 milioni di lire.

Il racconto del pentito Bernardo Brusca, boomerang per l’accusa

La difesa del generale Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno ricorda poi le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca e del giudice Liliana Ferraro. “Perfino Brusca, cioè la “parte mafiosa”, ha affermato che i Carabinieri li avevano presi “in giro. Ma quelli avevano fatto solo e semplicemente il loro lavoro, gli investigatori”, come disse il pentito in un’udienza il 12.12.2013 . “Stupisce come si possa affermare l’esistenza di una “trattativa” ed, altresì, l’esistenza di un accordo”.

Il pianto di De Donno per la morte di Falcone

E ancora: “Liliana Ferraro, che incontra il Capitano De Donno intorno al 20-25 giugno 1992, ha riferito che De Donno piangeva per la morte di Falcone e le disse (nel 1992), in merito a Vito Ciancimino, che “bisognava fare di tutto per cercare di scoprire gli autori di questa … strage e che lui si era ricordato di avere conosciuto in passato il figlio dell’ex sindaco di Palermo inquisito negli anni ’80 da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Caponnetto e che aveva incontrato questo figlio di Vito Ciancimino anche di recente e che forse valeva la pena di vedere attraverso il figlio se era possibile contattare il padre e vedere se il padre, visto quello che era successo, era disponibile a collaborare con i Carabinieri”.

Gli attentati di mafia smentiscono la storia della trattativa

Su quei contatti con Vito Ciancimino, i giudici che hanno assolto Mori in due processi hanno scritto: “Se la cattura del Riina fosse stata il frutto dell’accordo con lo Stato, tramite il quale era stata siglata una sorta di “pax” capace di garantire alle istituzioni il ripristino della vita democratica, sconquassata dagli attentati, ed a “cosa nostra” la prosecuzione, in tutta tranquillità dei propri affari, sotto una nuova gestione “lato sensu” moderata, non si comprenderebbe perché l’associazione criminale abbia invece voluto proseguire con tali eclatanti azioni delittuose, colpendo i simboli storico-artistici, culturali e sociali dello Stato, al di fuori del territorio siciliano, in aperta e sfrontata violazione di quel patto appena stipulato”.

E ancora: “Anche i progetti elaborati dal Provenzano di sequestrare od uccidere il cap. De Caprio, di cui hanno riferito in dibattimento, in termini coincidenti, i collaboratori Guglielmini, Cancemi e Ganci, appaiono in aperta contraddizione con la tesi della consegna del Riina al Ros”.

“Se così fosse avvenuto, il boss non avrebbe avuto alcun interesse alla ricerca del capitano “Ultimo”, mentre, da quanto sopra, è stato accertato che effettivamente si cercò di individuarlo, tramite un amico del compagno di gioco al tennis”.

La farsa degli avvicendamenti al Dap voluti, in realtà, da Scalfaro

Altri spunti della difesa del generale Mario Mori riguardano la sostituzione ai vertici del Dap tra Nicolò Amato e Adalberto Capriotti, avvenuta nel giugno 1993.

“E’ emerso in modo cristallino come gli autori di tale avvicendamento siano stati Scalfaro, Conso ed i cappellani carcerari, Mons. Fabbri e Mons. Curioni. Mentre per quanto riguarda la nomina di Francesco Di Maggio al posto di Edoardo Fazzioli, quale vicedirettore, è emerso un interessamento del Capo della Polizia Parisi, e l’intervento di Scalfaro.

“In spregio di tali evidenze, che dimostrano come Mori (che all’epoca era solo un colonnello, per quanto importante e conosciuto ma che, proprio in quegli anni 1993 e seguenti, indagava con il suo Reparto – il Ros – anche su Scalfaro) non c’entri nulla, si è scritto in sentenza che dietro Parisi, “suggeritore” della nomina di Di Maggio, vi sarebbe il “suggeritore del suggeritore”, cioè Mori”, come dirà la difesa.

Queste le parole della sentenza: “Ed appare logico, allora, pensare ad un “suggeritore” nella individuazione della persona del Di Maggio quale soggetto destinato a sostituire Nicolò Amato, tanto più che tale individuazione risale, come si è visto, già ad alcuni mesi prima della formalizzazione della nomina e, in particolare, al mese di febbraio 1993,quando, con le dimissioni del Ministro Martelli, fautore della linea di maggiore rigore per i detenuti di mafia, si aprì la prospettiva di una rivisitazione della politica carceraria instauratasi dopo le stragi dell’anno precedente. Vi sono alcuni elementi di fatto che inducono a individuare tale “suggeritore” del Capo della Polizia Parisi tra i Carabinieri, con alcuni dei quali il Di Maggio, a differenza che col Parisi, in virtù anche della sua naturale propensione derivante dal fatto di essere figlio di un sottufficiale dell’Arma ed anche per la sua predilezione soprattutto per il Ros”, come risulta dalla sentenza.

Ma il vero nodo cruciale è un altro: per i legali del generale la sentenza di primo grado sostiene che Mori avrebbe portato la minaccia a Conso, tramite Francesco Di Maggio, il 27 luglio 1993, allorquando incontrò quest’ultimo.

Secondo la sentenza il generale Mori, in quella occasione, avrebbe rappresentato a Di Maggio l’esistenza di una “spaccatura” tra Riina e Provenzano, il primo stragista ed il secondo assestato su una linea morbida e non di contrapposizione frontale allo Stato.

Di Maggio, a sua volta, ne avrebbe riferito a Conso che, nella speranza di accontentare Provenzano, avrebbe deciso di non prorogare 334 provvedimenti 41 bis. In questo sarebbe consistita la minaccia al governo.

Mori, secondo la sentenza, avrebbe appreso la notizia riferita a Di Maggio da Salvatore Cancemi, appena 5 giorni prima.

Il verbale ignorato sulle spaccature fra i boss corleonesi

Senonchè le dichiarazioni di Cancemi, rese il 22 luglio 1993 davanti ai procuratori Caselli, Scarpinato e Sabatino e senza che fosse presente personale del Ros, smentiscono la tesi della sentenza, perché Cancemi non parla, nè in quell’occasione, nè in altre successive, di “spaccature” tra i due boss corleonesi.

Quel verbale, però, ancorchè acquisito perchè prodotto dalla difesa del generale, è stato ignorato. Un dettaglio di non poco conto, visto che la sentenza sostiene anche che Mori avrebbe appreso pure da Vito Ciancimino la notizia della “spaccatura” tra Riina e Provenzano. E se cade la tesi Conso, casca tutta la vicenda della trattativa.

 

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