2 agosto, dopo la perizia Coppe serve un atto di coraggio. Anzi, di giustizia
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
A essere realisti, la perizia di Danilo Coppe e dei suoi collaboratori sull’esplosivo utilizzato per compiere la strage del 2 agosto 1980 non dissipa completamente i dubbi che ancora solleva quella triste vicenda. Non ci sono “prove” nella relazione dei periti nominati dalla Corte d’Assise di Bologna, ma solo “indizi”. Però, pur con tutte le cautele del caso, sono indizi pesanti e che portano in direzioni alquanto diverse da quelle verso le quali sono orientate le parti civili, l’Associazione dei familiari delle vittime, probabilmente lo stesso collegio giudicante chiamato a valutare la posizione di Gilberto Cavallini. I due elementi “di novità” – il possibile “interruttore di sicurezza” ritrovato (che conduce alle modalità di azione del Gruppo Separat-Carlos) ela considerazione sull’impossibilità della “smaterializzazione” del corpo di Maria Fresu (che, di fatto, cambia radicalmente lo scenario dell’attentato e delle ore e dei giorni immediatamente successivi al tremendo scoppio) – cozzano vistosamente con le convinzioni colpevoliste. Se, infatti, come pare, nel tremendo sconvolgimento che visse il capoluogo emiliano in quei frangenti, alla presenza in città di tutte le autorità politiche e poliziesche del Paese, qualcuno potè impunemente operare per inquinare in modo tanto decisivo la scena del crimine, questi – singolo o organizzazione che fosse – non era certo un uomo dei Nar o collegato a quel gruppo eversivo certamente pericoloso e ramificato, ma privo di quelle strutture logistiche e cospirative necessarie per porre in essere una tale operazione. Per di più, il terzo “indizio” – la possibile accidentalità dell’esplosione -, rafforza l’ipotesi che Valerio Fioravanti e “camerati” siano innocenti di quel sangue, poiché il fantomatico apparato di depistaggio – capace anche di far sparire un cadavere dall’obitorio – si sarebbe dovuto mobilitare con straordinaria tempestività, inaspettatamente, occultando le proprie mosse sotto gli occhi di centinaia e centinaia di funzionari d’ogni livello, poliziotti, carabinieri, agenti dei servizi, militari, volontari d’ogni genere, senza contare i sottosegretari, i ministri e finanche il capo dello Stato piombati a Bologna a macerie ancora fumanti. Solo una “grande ragion di Stato” e solo i custodi deputati alla sua protezione avrebbero avuto una tale possibilità. Il tema giudiziario all’ordine del giorno, però, è un altro e mette drammaticamente a nudo tutti i limiti del processo a Cavallini, per il quale l’assoluzione (o la condanna) potrebbero non dipendere minimamente dal contenuto della perizia depositata e dalle altre di cui si aspettano gli esiti. Dell’imputato alla sbarra, infatti, si deve stabilire se il comportamento che ebbe nei riguardi di Fioravanti e della Francesca Mambro – di ci si dà per scontata la colpevolezza nel procedimento in corso – configura solo il reato di “banda armata” e “concorso in strage” (Cavallini è già stato condannato per tutto ciò); oppure se è necessario riqualificare il reato ascrittogli in “strage” e comminargli l’ergastolo. In altre e più semplici parole, Michele Leone e i membri della giuria popolare sarebbero chiamati “semplicemente” a sciogliere il seguente dubbio: l’aver ospitato Fioravanti, la Mambro e Luigi Ciavardini e l’aver dato loro una macchina, configura una vera e propria condivisione e partecipazione al “progetto stragista”? Ora, è chiaro ed evidente a chiunque che – se i Nar non hanno compiuto la strage – la questione su cui la Corte d’assise è chiamata a decidere decade automaticamente. Il problema, appunto, trovandosi di fronte a “indizi” e non a “prove” che testimoniano la possibilità di altri e ben diversi scenari, è che i giudici potrebbero nascondersi dietro il “dito giuridico” di non aver avuto il compito di stabilire l’effettiva colpevolezza delle persone già condannate, ma solo di definire – nel quadro cristallizzato delle sentenze passate – il ruolo di Cavallini. L’ostilità manifestata, nel corso delle udienze, alla considerazione della così detta “pista palestinese” costituisce una pesante “ipoteca” sul verdetto. Tutto ciò che si è ascoltato da oltre un anno nel tribunale di Bologna e tutti gli indizi emersi potrebbero – anzi, dovrebbero – portare a un’assoluzione di Cavallini, appunto con la motivazione che i dati processuali emersi mettono in radicale discussione anche le risultanze a carico di Fioravanti, di Ciavardini e della Mambro. Magari, gettando finalmente il seme per la revisione di una storia giudiziaria che ha dignità solo nella cerchia stretta del Comune di Bologna, solo ed esclusivamente per ragioni politiche, non certo giudiziarie. In buona sostanza, proprio perché le perizie non forniscono “prove”, ma solo “indizi”, per quanto corposi e solidi, sarebbe necessario un grande atto di coraggio da parte della Pubblica accusa e ancor più della Corte. Ma sono tempi, questi, per una atto di coraggio, da parte della magistratura? Oddio, la legge dice che le sentenze, anche quelle passate in giudicati, non costituiscono assolutamente un “vincolo” per il giudice chiamato a valutare – o rivalutare – delle ipotesi criminose; dunque, a ben considerare questi “indizi”, per quanto non siano “prove”, per assolvere Cavallini non sarebbe nemmeno necessario un atto di coraggio, bensì di mera giustizia.