Il capolavoro di Wajda al Cinema Farnese, “L’uomo di marmo” anticipò la caduta del Muro di Berlino

5 Giu 2019 17:20 - di Carlo Cozzi

“Corso Polonia”, questo il titolo dell’importante festival multimediale che si è aperto a Roma a cura dell’Istituto Polacco. Il sottotitolo dell’evento, che spazia dalla musica all’arte, dalla fotografia al teatro ed al cinema, Danzica città libera, evidenzia con incisività lo spirito animatore di questa rassegna, che vuol essere un omaggio alla città ed al popolo polacco che furono protagonisti della storica rivolta contro l’oppressione sovietica, un omaggio del popolo romano alla città in cui nacque nel 1980 il sindacato autonomo Solidarnosc, che quell’ideale di libertà tradusse in realtà vincente nel nome della Fede e della Patria.

Il festival toccherà infatti il suo acme qualificante nella proiezione, domani giovedì , al Cinema Farnese, una sala da tempo affermatasi nella Capitale come scrigno e ultimo baluardo del grande Cinema, della copia restaurata de L’uomo di marmo, il capolavoro di Andrzej Wajda che nel 1976 rappresentò la critica più radicale del sistema comunista che sia mai apparsa sugli schermi. E’ il film che segnò nelle coscienze degli spettatori il preludio della caduta del muro di Berlino, evento emblematico del tramonto e dell’estinzione del comunismo in Europa e nel mondo.

Il tema del film è quello, prediletto da Wajda, del legame dialettico fra passato e presente nella ricerca della verità fra le ombre che si addensano spesso sul volto della Storia. Agnieszka, giovane e intraprendente laureanda della tv polacca, porta avanti una ricerca sul muratore Birkut, un eroe stakanovista esaltato dal regime comunista negli anni ’50 per gli spettacolari record raggiunti nel posare mattoni nei cantieri di Varsavia. Ormai la statua di marmo del muratore giace riversa negli scantinati di un museo. La storia drammatica di Birkut prende corpo sullo schermo parallelamente alla ricerca della ragazza, che raccoglie testimonianze inaspettate e rivelatrici sulla vera storia di quel campione dello stakanovismo, un tempo esibito dal regime nei giri di propaganda nei cantieri come un “eroe del lavoro”.

Scopre così che Birkut cadde in disgrazia il giorno i cui un compagno lavoratore, stremato dagli assurdi ritmi di messa in opera dei mattoni imposti dal partito, gli ustionò per protesta le mani con un mattone rovente. Per Birkut è la presa di coscienza della retorica ipocrita con cui il regime ha perseguito in realtà soltanto un turpe piano di sfruttamento architettato ai danni della classe operaia. E Agnieszka scoprirà infine che Birkut è morto a Danzica, vittima della repressione dei moti operai del ’70. Wajda riesce da maestro a comporre e coordinare il vasto mosaico di eventi di ieri e del presente, con un uso superbo dell’ellissi e del richiamo implicito per una lettura morale degli eventi.

Un film che si raccomanda particolarmente alle giovani generazioni, perché possano acquisire una più matura coscienza sugli insegnamenti che ci impartisce sempre la Storia, quella che alla fine emerge sempre, perentoria e vincente nella sua crudezza, dalle cortine fumogene delle reticenze e delle falsificazioni di parte. Come scrisse Callisto Cosulich quando il film uscì nelle sale in Italia, Birkut era un “eroe positivo” (una categoria topica della critica marxiana) dell’era staliniana “che suona condanna dell’era stessa”. Wajda ricordava che negli anni Cinquanta “i responsabili della cinematografia del regime ci ripetevano che il sistema era perfetto e che, se qualcosa non funzionava, la colpa era degli individui”. L’uomo di marmo rovescia questa tesi aberrante: a rivelarsi fallimentare era proprio il sistema. A proposito del gesto spietato dell’operaio Witek, che viene processato come complice di una rete spionistica al soldo dello straniero, il saggista polacco Artur Sandauer osserva: “Qualsiasi forma di male doveva venire dall’esterno: il mattone incandescente finito nelle mani di Birkut , dunque, poteva essere solo, ed esclusivamente, il risultato di una macchinazione dei servizi stranieri”.

Chi era Andrzej Wajda? Tutta l’opera del più grande autore della cinematografia polacca, da “I dannati di Varsavia” a “Cenere e diamanti”, da “L’uomo di marmo” a “Post mortem. Storia di Katyn”, è segnata da una sofferta e tormentata sete di verità. Una urgenza morale che si affacciava sgomenta sulla verità terribile della strage che i sovietici avevano perpetrato nella primavera del 1940 nella selva di Katyn, non lontano da Smolenk, dove vennero trucidati 27mila ufficiali polacchi fatti prigionieri dall’Armata rossa a seguito dell’invasione della Polonia concordata con Hitler. L’eccidio segna in misura incancellabile un immenso lutto che tutta la Nazione polacca ha vissuto per mezzo secolo nella sua coscienza più profonda, sotto il regime comunista, all’insegna della menzogna e della censura negazionista. Ma la verità storica sugli autori di quel terrificante atto di “pulizia ideologica” perpetrato da Mosca era emersa infine come macchia indelebile sulla storia del comunismo.

Nel 1992, quando ormai l’URSS non esisteva più,il presidente russo Boris Elstin consegnò nelle mani del presidente polacco Lech Walesa il documento firmato da Stalin con cui il dittatore sovietico ordinava alla NKVD di sopprimere 27mila ufficiali dell’esercito polacco. Ma quel lutto nazionale era anche una ferita dolorosa e sanguinante che aveva aperto una piaga lancinante nell’io privato di Andrzej Wajda. Suo padre, ufficiale della riserva dell’esercito polacco, era stato passato per le armi nella selva di Katyn. Negli stessi anni Novanta erano emersi dagli archivi segreti della NKVD che gli specialisti del servizio erano stati addestrati a colpire con un solo colpo in un punto particolare del cranio dei martiri, allo scopo di risparmiare proiettili. Wajda rivelò che nel 1943 la sua famiglia, dopo la scoperta delle fosse di Katyn da parte della Wermacht, trovò il nome di suo padre in una lista pubblicata dai tedeschi. “Ho vissuto l’eccidio di Katyn – ricordò il regista in una intervista del 2007 – attraverso la tragedia di mia madre che, fino a qualche anno prima di morire, non ha mai potuto credere che suo marito non sarebbe più tornato”.

Ricordo che, quando lessi quell’intervista apparsa su La Repubblica, la tragedia bruciante della madre di Andrzej Wajda mi apparve tremendamente “sorella” di quella vissuta da mia madre quando, tra la primavera del 1945 e la fine degli anni Cinquanta correva alla cornetta ad ogni squillo del telefono con la speranza di ascoltare la voce del suo figlio primogenito. Mio fratello Marcello, diciottenne “ragazzo di Salò,” accademista della scuola militare della Rsi, giaceva dalla notte del 19 maggio del ’45 in una fossa comune vicino a S. Possidonio nel Modenese. Stava tornando a casa dal Nord a bordo di un camion della Pontificia Opera d’assistenza, quando fu fermato da una squadraccia di armati comunisti, torturato e ucciso insieme ad altri giovanissimi commilitoni.  Quando la guerra era ormai già finita da un mese. Tra l’eccidio terrificante della selva di Katyn e quello consumato in una notte maledetta in un campo di grano del modenese avvertii dolorosamente il correre di un filo rosso di sangue, che accomunava due tragedie in un unico trionfo bestiale del Male. Quel Male aveva un nome preciso ed incancellabile, si chiamava “comunismo”. Per i cittadini polacchi, come per quelli italiani conservare la memoria del sacrificio di sangue allora sofferto dai vinti è un dovere morale, non per riaccendere scintille di odi insensati e antistorici, ma per ammonire che quegli Olocausti raccapriccianti non abbiano mai più a ripetersi nel futuro.

 

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