L’orrore di Katyn: un libro di Carlo Cozzi racconta la follia criminale dell’Armata Rossa
Per gentile concessione dell’editore, anticipo una pagina del mio romanzo-amarcord che uscirà a fine ottobre per i tipi della casa editrice Giubilei Regnani. La pagina del libro, titolo provvisorio “La casa gialla”, rievoca il ritrovamento nel 1943 delle fosse nella selva di Katyn, dove vennero seppelliti 27mila ufficiali dell’esercito polacco prigionieri dell’Armata rossa, sterminati per ordine di Stalin.
“Caporale, qual è il motivo per cui vi siete messo a rapporto?”
Il maggiore Angelhart, comandante del reparto del genio impegnato nella primavera del 1943 a fornire il supporto logistico alla ritirata delle truppe tedesche lungo il fiume Dnieper, è piuttosto annoiato nel rivolgere quella domanda al sottufficiale vivandiere.
“Stamattina, signor Maggiore, mi ero alzato all’alba ed avevo raggiunto il bosco vicino al villaggio, con l’intenzione di raccogliere i funghi…” “Bene, … i funghi! E allora?” “Mi sono accorto che il terreno, cosa insolita all’interno di una foresta, era stato visibilmente dissodato e rimosso. Guardandomi intorno, mi sono accorto che altre ed ampie superfici di terra, nelle radure del bosco, presentavano lo stesso aspetto … Di funghi non ne ho scoperti nemmeno uno ma, mentre frugavo col bastone fa le zolle, ho trovato un paio di occhiali dalle lenti lesionate ed un guanto spaiato. Speravo ancora, signor maggiore, di trovare qualche fungo, ma dalla terra rimossa ho tirato fuori solo due bottoni. Sopra c’era uno stemma con un’aquila …” .
L’orrore
Il maggiore, a quella notizia, ha un sobbalzo. Il terreno dissodato sta a significare che in quel luogo si è scavato per sotterrare qualcosa. E’ probabile che i sovietici, quando due anni prima si erano ritirati da quella regione sotto l’incalzare delle armate germaniche, abbiano sotterrate armi per impedire che se ne impadronisse il nemico, Ma è anche possibile, e l’ipotesi fa venire l’acquolina in bocca all’ufficiale germanico, che qualcuno, magari degli ebrei polacchi, abbia lì interrato qualche tesoro, con l’intenzione di recuperarlo a guerra finita. Il villaggio e la vicina foresta si chiamano Katyn e fanno parte della regione che, in seguito alla spartizione della Polonia decisa col patto Molotov-Ribbentropp, è divenuta territorio dell’Urss. Il maggiore Angelhart si affretta perciò ad ordinare che l’intero reparto si trasferisca nella foresta per scavare con i badili. Con sorpresa ed orrore degli scavatori, affiorano molti scheletri. Sui resti delle divise indossate dai cadaveri esumati sono chiaramente visibili gli emblemi dell’esercito polacco. Si tratta di ventisettemila ufficiali polacchi, fatti prigionieri dai sovietici e passati per le armi dai reparti speciali della Nkvd nella foresta di Katyn nell’aprile 1940, per essere quindi seppelliti in otto immense fosse comuni. Su richiesta del governo polacco esule a Londra, sulla strage viene aperta un’inchiesta della Croce Rossa Internazionale. La propaganda di Goebbels denuncia e condanna quel massacro come una testimonianza della barbarie e del comportamento criminale dei bolscevichi, ma non va oltre la condanna formale.
Victor Zaslavsky, in un suo libro sulla strage, scrive che gli esecutori della polizia segreta, per non sprecare più di una pallottola per prigioniero, gli sparavano in un particolare punto della nuca. Erano veri professionisti, addestrati per eliminare e nascondere i corpi delle vittime. Erano veterani di mille e macabre operazioni di questo genere. Perché, mi chiedo perplesso, i ventisettemila militari polacchi vittime di quel massacro portano tutti sulla giubba i gradi di ufficiale delle forze armate polacche? Soltanto dopo la conclusione del conflitto mondiale, l’analisi degli storici avrebbe identificato in quel massacro un esempio tragico di “pulizia ideologica”. Quei ventisettemila ufficiali fatti prigionieri dai sovietici avrebbero potuto rappresentare, al momento del futuro ritorno della pace, il nerbo della classe borghese ai vertici della società in Polonia. Eliminarli costituiva perciò un contributo, cinico ma decisivo, per l’instaurazione di un regime popolare di tipo comunista in Polonia. L’ordine dell’esecuzione di quell’eccidio di classe era stato impartito da Stalin in persona.
Fra le salme riesumate viene identificata, grazie al numero di matricola della piastrina metallica, quella di un capitano. Di cognome si chiama Wajda. Nel taschino della giubba, all’altezza del cuore, c’è una fotografia che ritrae un bambino biondo in braccia a sua madre. Sulla fotografia ritrovata fa spicco drammatico il foro bruciacchiato lasciato dal proiettile dell’esecuzione. Quel fanciullo della foto crescerà nel clima cupo e sordo della Polonia comunista e diventerà adulto. La memoria e la coscienza di quel giovane studente usciranno però intatte dalle aule di una scuola basata sul lavaggio del cervello, com’era quella di marca sovietica allora in auge aldilà della Cortina di ferro. Il giovanotto non dimenticherà, non rimuoverà. Laureato regista alla scuola cinematografica polacca, Andrzej Wajda girerà negli anni Settanta il suo film capolavoro, L’uomo di marmo.
Quella pellicola, che traduce in cifra di vera poesia la vicenda di un’inchiesta giornalistica e insieme il dramma di una presa di coscienza del protagonista, rappresenterà uno dei massimi contributi intellettuali ed etici preannuncianti il crollo del sistema comunista in Polonia. Il film di Wajda è il presagio di quella svolta della storia mondiale che verrà segnata dall’abbattimento del Muro di Berlino, La memoria possiede la forza di far rinascere la Verità. Nel diramare l’ordine di quell’ordinario eccidio consumato nella selva di Katyn, Stalin, nella sua fosca e brutale statura di sanguinario tiranno georgiano, non aveva certamente immaginato che quella soluzione criminale, da lui ritenuta finale e definitiva, avrebbe avuto, a distanza di decenni, un esito imprevisto: la demolizione del Moloch sovietico. Sotto il baffo cespuglioso e bonariamente paternalistico del “Piccolo Padre”, mi chiedo nell’ascoltare la notizia della strage di Katyn divulgata nell’inverno del ’43 dall’apparecchio radio Marelli, si nasconde la mente satanica di un genio del Male?
Domani, al cinema Farnese, vivrà ancora un volta l’eco di quella stagione funesta della Storia. Nel buio di quella sala in Piazza Farnese, con emozione, noi ricorderemo.