Strage di Bologna, ecco tutti i boomerang di chi accusa Gilberto Cavallini
29 Giu 2019 16:48 - di Massimiliano Mazzanti
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Senso di giustizia, atto di coraggio – come si diceva ieri -, oppure basterebbe un po’ di semplice buonsenso, per chiudere il grottesco processo a carico di Gilberto Cavallini per la strage del 2 agosto 1980? Ricapitolando gli eventi fin qui accaduti nell’aula della Corte d’Assise, a nessuno può essere sfuggito come il dibattimento – unico elemento di originalità – è stato caratterizzato dall’insolita, insanabile frattura tra pubblica accusa e parti civili: contrapposizione curiosa, dal momento che entrambe mirerebbero alla condanna dell’imputato. Quel che è peggio – per chi vorrebbe un esito negativo per Cavallini – è che tutte le principali mosse – e astuzie – dell’accusa si sono puntualmente trasformate in “boomerang”. Vale la pena ricordare almeno le principali. Le testimonianze del pentito Mauro Ansaldi e di Fabrizio Zani sul “covo” di via Monte Asolone a Torino, quelle che avrebbero niente di meno che dovuto collegare Cavallini non solo alla strage del 2 agosto, ma anche all’assassinio di Piersanti Mattarella; con l’Ansaldi che s’accorge di essere chiamato a confermare un precedente verbale d’interrogatorio falso (suscitando imbarazzo nella Corte e tra gli astanti in aula) e lo Zani che smentisce addirittura che quello di via Monte Asolone fosse un covo, accusando in aula le forze dell’ordine di aver portato in quel luogo materiali evidentemente ritrovati altrove. Si era nell’ottobre scorso, alla fine del quale, il giorno 30, fu chiamato a deporre il generale Mario Mori, il quale, a una Corte e a dei “pm” che non vogliono nemmeno prendere in considerazione l’argomento, confermò l’esistenza del così detto “lodo Moro”. Qualche giorno prima di Mori, il 14 novembre, per la precisione, su espressa volontà del presidente Michele Leoni, furono introdotte nel processo Paola Mannocci e Mirella Cuoghi, le due “possibili supertesti” segnalate all’attenzione di tutti dall’autore del libello “Tutta un’altra strage”. La Mannocci avrebbe dovuto rivelare chissà quale confidenza ricevuta dal padre – ferito alla stazione e poi deceduto -, mentre in aula, con aria quasi esterrefatta, ha sbrigativamente liquidato l’ipotesi, dichiarando di non aver mai ascoltato dal padre nulla di significativo sulla vicenda. La Cuoghi, la donna che avrebbe riconosciuto in Francesca Mambro una ragazza notata poco prima dell’esplosione, oltre a rivelarsi in generale poco attendibile, data la confusione dei suoi ricordi, ha implicitamente ammesso che, quando fu richiesta di compiere un riconoscimento formale, fu indotta a farlo con una procedura del tutto scorretta e inattendibile. Per carità verso l’ordinamento giudiziario, poi, si sorvola sulla non eccelsa figura fatta dai magistrati chiamati a confermare la presunta vicenda della “minaccia a Giancarlo Stiz”, la cui unica “fonte” è Gianni Barbacetto, il giornalista de “il Fatto quotidiano”, a sua volta approdato in aula a Bologna per dire che, proprio di quella storia raccontata in un libro, non ha conservato né registrazione né appunti del colloquio avuto con lo scomparso giudice veneto. Proseguendo nell’elenco, come non ricordare la giornata dello scorso 6 febbraio, quando per tutta la mattinata si discusse in aula dell’origine dei “3 milioni di franchi svizzeri” che Cavallini avrebbe avuto, secondo un appunto a lui sequestrato nel 1983, in qualche cassaforte segreta? Come qualcuno ricorderà, quella che doveva diventare la “prova regina” degli immondi rapporti finanziari tra l’imputato e Licio Gelli, crollò quando qualcuno – segnatamente proprio “il Secolo d’Italia” – fece notare che, nell’appunto, non c’era affatto scritto che Cavallini disponesse di “tre milioni e mezzo di franchi svizzeri”, bensì solo di “tre milioni e mezzo in franchi svizzeri”: cioè, non l’equivalente di 2 milioni di dollari, ma di un migliaio scarso…Per non parlare, infine, di tutto lo “psicodramma” sulla fantomatica “rete Anello”, altra invenzione giornalistica che ha visto l’eccitazione fuor di misura dell’avvocato Nicola Brigida e per fare chiarezza sulla quale fu chiamato a deporre – era il 26 marzo di quest’anno – l’ufficiale della Guardia di Finanza Massimo Giraudo. La “fiamma d’oro” non solo ridicolizzò di fatto l’ipotesi, ma ribadì anche – nella sua deposizione di fronte alla Corte d’assise – la presenza a Bologna, il 2 agosto 1980, di Francesco Marra, all’epoca affiliato alle Brigate rosse e in contatto con le organizzazioni terroristiche palestinesi. Insomma, tutta una serie infinita di accertamenti e di approfondimenti che non solo non hanno aggravato di una virgola il già debolissimo carico sulle spalle dell’imputato, ma hanno addirittura rafforzato la sua posizione, contribuendo semmai a mettere pesantemente in discussione le condanne passate in giudicato comminate a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Ora, anche la perizia esplosivistica. Dunque – se avesse un senso l’antico brocardo: in dubiis pro reo -, avendo esplorato inutilmente tante piste per provare la colpevolezza di Cavallini, il verdetto dovrebbe tenere conto dell’inconsistenza di tanto spreco d’energie. O no?