Stragi di mafia, depistaggio su Borsellino. Giallo sulle bobine del falso pentito
L’unica certezza è che nelle 19 bobine ci sono intercettazioni e non interrogatori e che riguardano Vincenzo Scarantino, l’ex pentito di mafia che ha più volte ritrattato le sue dichiarazioni nell’ambito del processo della strage di via D’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Resta invece un mistero il loro contenuto. Ne sapremo certamente di più il prossimo 19 giugno, giorno in cui le bobine verranno esaminate dal Racis dei Carabinieri di Roma per accertamenti tecnici non ripetibili nell’ambito dell’inchiesta della procura di Messina che indaga sul depistaggio della strage di Via D’Amelio. La comunicazione alle parti dell’accertamento non ripetibile ha consentito di svelare l’identità dei magistrati indagati per depistaggio: sono Annamaria Palma e Carmelo Petralia. Entrambi rispondono del reato di calunnia aggravata dalla finalità di agevolare Cosa Nostra. Nelle intercettazioni i magistrati di Messina cercano elementi nuovi in grado di ricostruire la complessa macchina del depistaggio attorno al falso pentito, condannato in passato per calunnia proprio nei confronti di alcuni magistrati che indagarono su via D’Amelio.
Due magistrati, Palma e Petralia, indagati per calunnia aggravata
È l’estate del ’95 quando Scarantino, che aveva cominciato a collaborare con la giustizia, viene portato con la sua famiglia in una località protetta a San Bartolomeo al Mare, in Liguria. Un periodo pieno di contraddizioni, con molte lacune, con racconti fatti ai poliziotti che lo proteggevano e poi ritrattati. Più e più volte. E alla sbarra, a Caltanissetta, per calunnia aggravata, finiscono anche i poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Scarantino li aveva indicati quali suoi “suggeritori” del depistaggio insieme ai magistrati che conducevano le indagini. Puntuale, arriva l’ennesimo giro di valzer: «Il dottor (Antonino) Di Matteo non mi ha mai suggerito niente, il dottor Carmelo Petralia neppure. Mi hanno convinto i poliziotti a parlare della strage…», aveva detto nel corso del controesame davanti al tribunale di Caltanissetta.
Il collaboratore Scarantino: vittima o complice del depistaggio?
Un mistero nel mistero è poi il telefono fisso di Scarantino a San Bartolomeo. Lo aveva o no? Luigi Mangino, funzionario del servizio di protezione e teste al processo, ha detto di non ricordare. Invece, l’utenza fissa c’era. Ma delle conversazioni su quella linea non si trovano né brogliacci né bobine, ma solo un decreto di intercettazione, a partire dalla stessa giornata in cui viene messo il telefono. Un giallo, infine, è anche l’intervista rilasciata in quel periodo da Scarantino al giornalista di Mediaset Angelo Mangano. Nel contratto di collaborazione firmato quando decise di parlare con i magistrati c’era scritto che se avesse rilasciato una intervista sarebbe stato subito espulso dal programma di protezione. Ma non è accaduto nulla di tutto ciò. Perché?