Su “Storia rivista” il fallimento del decentramento amministrativo in Italia
È in distribuzione il numero 5 del bimestrale Storia Rivista, dedicato in particolare alle rivolte del Sud Italia e all’istituzione delle Regioni. l dossier di questo numero è dedicato ai fatti, anche violenti e sanguinosi, che hanno sconvolto alcune regioni del Mezzogiorno dal dicembre 1968 al febbraio del 1971. Vari i motivi delle sommosse che hanno registrato anche vittime: la lotta dei braccianti per il rinnovo del contratto di lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori a causa del caporalato, la chiusura di alcuni stabilimenti per la produzione dei prodotti agricoli, la disoccupazione, la migrazione verso il Nord, le sacche di povertà in alcune zone del Centro Sud. Infine le controversie per la designazione dei capoluoghi e la destinazione di altre importanti istituzioni a seguito della legge sugli enti regionali con cui si è dato l’avvio, nel maggio 1970 e quindi con spropositata lentezza, al processo di decentramento amministrativo in Italia previsto dall’art. 5 e dall’articolo 118 della Costituzione entrata in vigore dal 1 gennaio 1948. Il dossier ci fornisce anche il pretesto di fare un passo indietro per un’ulteriore riflessione sull’istituzione delle regioni, divenute ormai carrozzoni elettorali, centri di potere senza alcun controllo da parte dello Stato, contenitori di corruzione come i recenti casi della Lombardia e dell’Umbria hanno dimostrato.
Il ritardo con cui è stata data via libera alle legge sulle regioni, era dovuto soprattutto al timore da parte della Dc e dei suoi alleati, che il Pci – il partito comunista più forte in Occidente – potesse spadroneggiare in alcune regioni “rosse” come la Toscana, l’Emilia Romagna, la Liguria, le Marche, l’Umbria. Il Pci, pur messo in minoranza nelle elezioni del 1948, poteva invece raggiungere in alcune regioni – come tra l’altro in quelle che abbiamo citato – la maggioranza e quindi il potere. La Dc e non solo, avvertiva il pericolo che si potesse realizzare un frazionamento istituzionale dell’Italia in regioni autonome. Da parte loro i comunisti, pur contrari per principio ed anche nei lavori della Costituente alle autonomie regionali, per la loro conclamata posizione statalista centralizzata, avevano com preso che avrebbero potuto esercitare il loro potere nelle regioni e ad ogni piè sospinto non fecero che battersi per la più estesa autonomia regionale, sollecitandone l’immediata istituzione. Mentre invece la legge istitutiva delle 5 regioni a statuto speciale, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, prevista dall’art. 116 della Costituzione era stata sostenuta dai partiti di governo ed era passata indenne in Parlamento.
La posizione del Msi era chiara. Contrario al frazionamento regionale dello Stato che si presentava anche alla dottrina giuridica come un processo all’incontrario – come affermava il costituzionalista Ferruccio Pergolesi – nel senso “di un trapasso dal principio federativo tra territori retti da diversi ordinamenti statuali all’unità organica di essi” ma viceversa come “un declassamento dello Stato rigidamente unitario” (Si veda: Diritto costituzionale, Padova, Cedam 1962, vol. I, p. 177). Il Msi, sin dalla prima legislatura, fedele alla sua opposizione non aprioristicamente negativa, aveva presentato una organica proposta di legge costituzionale per la revisione dell’art. 138 del titolo V della Costituzione, nell’intento di sostituire alle regioni autonome un effettivo e radicale decentramento agli Enti locali di tutta una serie di settori della pubblica amministrazione.
Nel corso degli anni il Msi, il Msi-Dn e successivamente Alleanza nazionale si sono sempre battuti con unaserie di iniziative parlamentari per modificare in alcuni punti essenziali la Costituzione che, non dobbiamo dimenticarlo è stata partorita dai partiti del Cln, ossia dai vincitori della guerra civile. Man mano queste azioni si sono affievolite in particolare quando nel 2009 è nato il Pdl, artificiale fusione tra due partiti ciascuno dei quali ben caratterizzati dalla diversa natura progettuale e ideologica: quella qualunquistica e liberaleggiante di Forza Italia e quella nazional-sociale di Alleanza Nazionale, la prima rivolta all’azione meramente contingente e conservatrice del giorno per giorno, la seconda tesa programmaticamente alla rifondazione dello Stato in senso partecipativo e presidenzialistico. A cinquant’anni circa dall’istituzione delle Regioni si può tranquillamente affermare che sono state un totale fallimento. Si era detto che sarebbe stato necessario un rodaggio di due-tre legislature affinché tutti i meccanismi regionali potesserofunzionare. Ebbene la prima legislatura 1970-1975 è stata definita “l’epoca dei pionieri”, la seconda legislatura 1975-1980 quella “degli statuti e delle grandi leggicornice”, la terza legislatura 1980-1985 quella della realizzazione dell’iniziativa politico-amministrativa delle Regioni nei settori affidati alle sue amministrazioni. Ma le successive legislature, a tutti i livelli, hanno registrato una lenta ma irreversibile crisi di questa istituzione.