Verità che nessuno dice: Falcone indagava sul terrorismo rosso e sui soldi al Pci
Visti i tempi, meglio chiarirlo sin dall’inizio: l’articolo che vi accingete a leggere riprende quello pubblicato oggi da il Quotidiano del Sud a firma di Paolo Guzzanti. Parla di Giovanni Falcone offrendo una pista investigativa sulla sua morte, in verità non nuova, ma certamente inesplorata: il flusso miliardario di rubli provenienti dall’ormai agonizzante Unione Sovietica e dirottato dall’emergente casta degli oligarchi russi verso l’Italia, dove la mafia è pronta a riciclarli per poi rispedirli “ripuliti” a Mosca una volta trattenuta nelle proprie casse una tangente di proporzioni oggi neppure immaginabili. La fonte di Guzzanti – padre di Sabina, autrice e regista del film La Trattativa (Stato-mafia) trasmesso in questi giorni da RaiDue – è Valentin Stepankov, procuratore generale dell’Urss a soli 40 anni. È lui l’uomo, si legge nell’articolo, «con cui Giovanni Falcone lavorava sotto copertura per conto del presidente Cossiga e del presidente del Consiglio Giulio Andreotti».
Un articolo di Paolo Guzzanti ripropone una pista mai esplorata sulla morte di Falcone
Stepankov viene in Italia nel giugno del ’92, un mese dopo la morte di Falcone, chiamato dai magistrati italiani per testimoniare sui finanziamenti sovietici al Pci e su possibili collegamenti tra il Pcus e le Brigate Rosse. E il suo racconto non delude le attese. Scrive, infatti, Guzzanti: «Stepankov disse che il gruppo del Pci, compreso Enrico Berlinguer, fossero stati consapevoli e attivi nel chiedere l’addestramento speciale di alcuni militanti comunisti a Mosca». Altri dirigenti citati sono Luigi Longo, Armando Cossutta e Ugo Pecchioli. Ma è nella conferenza stampa tenuta subito dopo nell’ambasciata russa a Roma che il racconto di Stepankov si fa particolarmente avvincente ed è quando informa i giornalisti di aver consegnato alla Procura capitolina «i documenti relativi ai finanziamenti» così come «era stato richiesto dal giudice Falcone durante una sua recente visita a Mosca». Una vera e propria “bomba”: nessuno sapeva, infatti, di questa trasferta in terra russa del magistrato e, per di più, poco prima di morire.
Prima di morire il magistrato era andato a Mosca sotto copertura diplomatica
Ma la “bomba” resta stranamente inesplosa. Eppure Falcone non era più un magistrato inquirente, ma un dirigente ministeriale (l’allora guardasigilli Martelli lo aveva chiamato a dirigere gli Affari Penali del ministero) che agiva sotto copertura diplomatica. «Andreotti mi confermò di aver fatto provvedere lui stesso», scrive ancora Guzzanti. Che giustamente lamenta la cortina di silenzio stesa intorno a questa inesplorata attività investigativa nella quale, per altro, Falcone applica lo stesso metodo delle sue indagini sulla mafia: follow the money. Per capire le dinamiche imprenditoriali-criminali di Cosa Nostra – era il suo ragionamento – occorre seguire il denaro. Esattamente quello che stava facendo per svelare l’intreccio tra i nuovi oligarchi russi e le “lavanderie” mafiose che avrebbero dovuto riciclare i fiumi di denaro sovietico che un tempo erano serviti a finanziare il Pci e il terrorismo rosso. Il tritolo di Capaci non gli ha dato il tempo.