«Sono qui a dirti che capisco il tuo stato d’animo, il senso di vuoto che si prova allorché si è costretti a lasciare un posto di lavoro che ti sembrava eterno, tuo e di nessun altro. Ogni strappo, la morte di un amico o di un familiare, ti stordisce o peggio ti mutila. Vorrei consolarti, spero di riuscirci – scrive Feltri – A me non è mai capitato per pura fortuna di essere licenziato. Però ho lasciato spontaneamente, per nausea, alcune direzioni. Ricordo il dì in cui mi allontanai dal Giornale nel quale avevo sostituito Indro Montanelli, non tuo cugino. Dopo quattro anni di trionfi indimenticabili, raddoppio delle vendite, all’improvviso non ne potei più. Avevo voglia di aria fresca, di fare altro, ciononostante non sapevo cosa…».
Feltri racconta la sua vicenda e conclude: «Anche se non dimentico il livore maturato in te allorché ti definii l’orfano del commissario assassinato dai tuoi amici di sinistra. Modestamente pure io rimasi orfano a sei anni ma non per questo me ne vanto. Per scherzare, affermo spesso che avere perso il padre mi ha agevolato: invece di avere due genitori che mi rompevano le balle ne avevo uno solo, mia madre, poveraccia. Il giorno che mi scrivesti che nella mia lunga vita professionale ero stato a capo soltanto di giornali di serie B, ti risposi che forse era così, tuttavia li avevo portati in serie A, mentre tu hai guidato due fogli di serie A e li hai portati entrambi in serie B. Era una battuta polemica e nulla più. Ti chiedo scusa sicuro che farai la stessa cosa con me. Se non accadrà, pazienza. Intanto ti auguro che il libro che hai dato alle stampe incontri il favore del pubblico e ti dia una boccata di ossigeno, indispensabile per affrontare il domani. A me rimproverano di avere avuto un successo facile. Replico, se il successo fosse facile lo avrebbero tutti, perfino i miei detrattori».