Dalla “questione meridionale” ai “baroni”: così a 111 anni di distanza “La Voce” continua a parlarci
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
In una lettera datata 20 novembre 1908, indirizzata a Benedetto Croce, da Giuseppe Prezzolini, il promotore culturale scriveva: “Esciremo il 20 dicembre”. Faceva riferimento al nuovo giornale cui stava dando vita insieme a Giovani Papini. Amico e incisivo intellettuale, già sodale nell’avventura della rivista Leonardo. Mantenne la parola: il primo numero di La Voce uscì, infatti, il 20 dicembre del 1908. In questo mese quindi cadrà il centoundicesimo anniversario dalla sua “escita” come scriveva Prezzolini. Era nata quella che poi si rileverà essere una delle più importanti riviste del ‘900.
“La Voce”: la forma (grafica) è sostanza
La Voce nasce come settimanale, stampato su carta color avorio, con la scelta raffinata dell’uso dei caratteri aldini. Caratteri tipografici riportati in Occidente, alla fine del ‘400, dal celebre tipografo Aldo Manuzio, che li riproponeva tratti da scritti e documenti antichi della Grecia classica. All’allora sconosciuto Ardengo Soffici fu affidato l’incarico di “creare” la linea grafica della testata. Si tenga presente che Prezzolini era nato nel 1882 e Papini nel 1881. Stiamo parlando quindi di due giovanotti di 26/27 anni, che tra l’altro già avevano alle spalle l’importante iniziativa della rivista Leonardo del 1903.
La concorrenza alla rivista “battezzata” da D’Annunzio
A differenza del Leonardo, che era una rivista letteraria, la nuova rivista avrebbe ospitato elaborazioni artistiche senza limitazioni di genere di sorta. Un segno di apertura in tal senso era dato dal coinvolgimento di Soffici, che nasceva come pittore. La scelta operata era in armonia con l’intento di sottrarre lettori al Marzocco per conquistarli a La Voce. Il Marzocco era una rivista letteraria fiorentina nata nel 1896, il cui titolo era stato scelto da Gabriele D’Annunzio. Rivista con la quale la nascente di Papini e Prezzolini si veniva a trovare su un terreno di concorrenza diretta.
Quando Salvemini coniò il “baronato accademico”
Il primo numero ebbe come articolo di fondo “L’Italia risponde” di Giovanni Papini. Nel secondo con l’articolo, “La nostra promessa”, Prezzolini dava conto degli indirizzi programmatici che avrebbe perseguito il settimanale. Grande attenzione sarebbe stata rivolta ai fermenti che cominciavano a serpeggiare sempre più corrosivamente nella statica e molle società borghese “giolittiana”. Quali ad esempio il sindacalismo e il modernismo. Premurosa attenzione sarebbe stata riservata alla cultura internazionale. Riportiamo un brano dell’articolo programmatico di Prezzolini. “Noi sentiamo fortemente – vi si legge – l’eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l’angustia ed il rivoltante traffico che si fa delle cose dello spirito”. Fu poi un articolo del collaboratore Gaetano Salvemini che stigmatizzò comportamenti del corpo docente universitario, bollandolo con termine giunto fino ai giorni nostri: “Baronato accademico”.
La Voce sposa l’interventismo
Su La Voce, come vero e proprio vanto degli ideatori, trovavano spazio autori di matrice ideale differente. Cosa che alla distanza, su scelte cruciali, porterà a defezioni. Quella di Salvemini avvenne nel 1911, a causa di valutazioni diverse, espresse in redazione, sulla linea che il settimanale, a suo avviso, avrebbe dovuto tenere a proposito della guerra di Libia. Salvemini sosteneva il non intervento dell’Italia, che riassumeva con il quesito “Andare a Tripoli?”. Antesignano del forse più celebre “Morire per Danzica?”. La Voce sposò la linea a favore dell’intervento. Salvemini decise di lasciare.
L’inchiesta sulla questione meridionale
Mediamente il settimanale aveva una tiratura di tremila copie, cosa di per sé già ragguardevole per una rivista culturale. Anche se i suoi orizzonti, in questa prima fase, coinvolgevano anche aspetti ulteriori della vita civile. La Voce nel 1911 toccò la cifra record di 5mila copie, la distribuzione in cento città. Dati questi che evidenziano anche una notevole prontezza organizzativa. I vociani tenevano parallelamente due linee: quella culturale e quella di attenzione ai fermenti socio politici. Effettuavano inchieste monotematiche. Celebre rimase quella su “La questione meridionale”.
Il ritorno alla letteratura
Nell’Aprile del 1912 lo stampato entra in una seconda fase. Prezzolini deve soggiornare per un periodo a Parigi. La direzione va a Giovanni Papini, che la manterrà fino al 31 ottobre dello stesso anno al rientro di Prezzolini. Quest’ultimo condividerà e confermerà la linea data da Papini al giornale. Tornare alla letteratura pura, lasciando il rapporto con la vita nazionale che aveva caratterizzato la fase precedente. Esponenti della cultura europea quali Andrè Gide, Paul Claudel, Heinrik Ibsen ebbero spazio, aprendo così un fertile contatto con alcune tra le voci maggiormente significative del “Vecchio Continente”. Alla fine del 1912 Papini con Soffici lasciano La Voce per fondare un’altra rivista Lacerba, che presto la supererà in numero di copie vendute. Dietro la pressione degli eventi drammatici che si stavano stagliando sui destini dei popoli europei, La Voce diventò un giornale “interventista”.
Una Voce che ancora oggi ci parla
Elemento sotto certi aspetti curioso consiste nel fatto che nel 1914 la direzione passerà a Giuseppe De Robertis, il quale, nelle temperie di guerra di quel momento, farà diventare La Voce un periodico esclusivamente letterario. Giuseppe Ungaretti, Aldo Palazzeschi, Clemente Rebora sono solo alcuni tra gli scrittori che riceveranno spazio durante la direzione di De Robertis. Quest’ultima fase, e lo stesso periodico, si chiude nel 1916. La Voce è stata un luogo d’incontro delle migliori energie intellettuali dell’epoca. Rimane senza dubbio pietra angolare, che suggeriva chiavi di lettura della realtà integrate fra società, politica e cultura. Forse proprio in questo approccio di metodo che consiste la modernità di quella Voce. Che ancora oggi si ascolta con attenzione e rispetto.