Né studio, né lavoro: avanza la generazione neet. E vince la Rete. All’Italia la maglia “rosa” d’Europa
Riceviamo da Mario Bozzi Sentieri e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
“Vita”, il mensile del Terzo settore e del mondo non profit, pubblica, sull’ultimo numero, un’ampia inchiesta dedicata ai cosiddetti Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Di che cosa si tratta? Il termine Neet è un’invenzione piuttosto recente. Acronimo di Not in Education, Employment or Training è stato utilizzato per la prima volta nel 1999 in un documento del governo britannico. Oggi si usa comunemente per indicare chi non è impegnato nello studio, né nel lavoro e neanche nella formazione.
Neet in Italia, la sconcertante fotografia del mensile “Vita”
La fotografia offerta da “Vita” è inquietante: nel 2018, in Italia, i Neet nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni sono pari a 2.116.000 e rappresentano il 23,4% del totale dei giovani della stessa età presenti sul territorio. Nel 47% dei casi i ragazzi hanno tra i 25 e i 29 anni, nel 38% i ragazzi hanno tra i 20 e i 24 anni e il restante 15% è nella forchetta 15-19 anni. L’Italia è la prima tra i Paesi europei per presenza di Neet, dove la media attuale è del 12,9%. Il problema è oggettivamente complesso. E non può essere assimilato alla vecchia condizione del “disoccupato”. Qui ad essere rilevanti sono fattori di carattere psicologico-esistenziale, che vanno ben al di là del puro e semplice dato occupazionale.
Neet, veri e propri “inghiottiti” dalla Rete
I Neet sono dei veri e propri “inghiottiti dalla rete”, poiché spesso nella loro auto-reclusione, l’unico contatto con il mondo rimane quello virtuale, che passa per il web. Così la loro seconda esistenza, tra chat, social newtork e giochi di ruolo online, diventa prioritaria rispetto a quella reale. La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine determinano nei ragazzi una perdita delle competenze sociali e comunicative.
Famiglie, istituzioni, mondo del lavoro: è il fallimento di un Sistema
Ad alimentare questa condizione ci sono disuguaglianze sociali, che riducono le possibilità di rompere i meccanismi della povertà e dell’esclusione. Ed insieme, contesti familiari, culturali, economici, sociali che non investono adeguatamente sulle potenzialità dei giovani e sul loro futuro. Insieme ad una generale sfiducia verso le istituzioni ed il mondo del lavoro, sentiti come estranei e lontani. Famiglie, istituzioni, mondo del lavoro: è il fallimento di un Sistema, un fallimento rispetto al quale i fondi dedicati alla formazione e l’estensione del diritto allo studio appaiono come i classici “pannicelli caldi”. Il problema è infatti “strutturale” e tocca la “percezione” che i giovani hanno del loro rapporto con la realtà. A cominciare dal primo ambito familiare.
Una sfiducia pesante nella meritocrazia e nelle possibilità di lavoro
Alla base l’idea che lo studio sia inutile (anche se il 49% dei giovani Need ha conseguito il diploma di scuola secondaria superiore e l’11% risulta essere laureato). Che la mobilità appaia bloccata (favorendo chi è già socialmente garantito). La meritocrazia non esista (in un mondo in cui a vincere sono sempre i soliti “furbi”). E che il futuro sia già predeterminato (e quindi sia inutile mettersi in gioco per costruirsene uno proprio). La percezione è di una netta cesura tra i giovani ed il sistema Paese, con conseguenze che – in prospettiva – rischiano di aumentare le fasce degli esclusi. Degli “inghiottiti” dall’inedia, a causa di un corpo sociale sempre più debole e sfilacciato. Visti e considerati la perdita di ruolo e di certezze autentiche offerte dalle famiglie (con una lunga e paradossale dipendenza dei figli adulti dai genitori). L’avanzare dei processi di disintermediazione, a seguito del depotenziamento dei corpi intermedi (ed il sostanziale isolamento sociale), la precarietà (resa palese dal lavoro in nero).
Vince la Rete: avanza l’autoesclusione e l’autoreclusione
“Vince” la Rete, ma in realtà – come abbiamo visto – avanza l’autoesclusione e l’autoreclusione. Un’autentica emergenza che priva le giovani generazioni di una possibilità di futuro. Ed il Paese di potere contare su quelle risorse culturali e spirituali, ancor prima che socio-economiche, rappresentate dai giovani. All’inverno demografico rischia insomma di seguire una sorta di glaciazione generazionale. Con conseguenze disastrose per tutti, giovani e meno giovani. Esserne consapevoli è il primo passo. Alla politica, al mondo della cultura e del lavoro di mettere in campo le doverose contromisure. In gioco, insieme a quelli dei giovani, ci sono i più ampi destini nazionali.