Economia, le ragioni di una crisi e un dibattito da riaprire: più Stato meno mercato?

13 Gen 2020 16:09 - di Mario Bozzi Sentieri
Più Stato meno mercato?

Riceviamo da Mario Bozzi Sentieri e volentieri pubblichiamo. Caro direttore, deve ritornare l’interventismo pubblico in economia? Insomma, dobbiamo tornare al vecchio slogan: Più Stato meno mercato? Ecco un bel tema sul quale riaprire il confronto, senza schematismi politico-culturali. Un tema che dovrebbe trasversalmente interessare e coinvolgere al di là delle vecchie appartenenze, guardando alla realtà, alla crisi economico-sociale in atto, alle debolezze “di sistema”.

Più Stato meno mercato: si può fare?

Dopo decenni di neo-iper-vetero liberismo una qualche messa a punto, nel motore di un capitalismo sempre meno “turbo”, bisognerà pur iniziare a farla. Partendo dallo stato di salute del Bel Paese e dai nuovi problemi sul tappeto. Questioni come l’Ilva o la gestione-ammodernamento della rete autostradale, tanto per citare due casi emblematici all’onore delle cronache, non possono oggettivamente essere gestite in modo ordinario o appellandosi genericamente al mercato e alle sue capacità di autoregolamentazione. E poi c’è la crisi economica.
Sono ormai più di venticinque anni che l’Italia deve fare i conti con la stagnazione. Sono i numeri a parlare chiaro. Nell’ultimo decennio il nostro Prodotto Interno Lordo è calato dello 0,3% l’anno, laddove in Germania è cresciuto dell’1,3% e dello 0,9% in Francia. Scende la produzione e con essa gli occupati nell’industria manifatturiera (meno seicentomila dal 2008 al 2018). Le cause sono diverse. Sta proprio qui la tipicità del “caso italiano”.

La tipicità del caso italiano

A concorrere alla crisi sono infatti diversi fattori che interessano non solo, genericamente, il mercato, le modalità produttive, la capacità competitiva delle nostre aziende. L’instabilità politica, con la conseguente incertezza delle scelte programmatiche a livello governativo, è certamente il primo fattore. Ma, in una sorta di effetto trascinamento, a seguire c’è la Scuola, la crisi demografica, i freni burocratici, la tassazione, i tempi della giustizia, la debolezza della ricerca applicata.
E’ insomma un sistema a non funzionare e a pesare sul mondo della produzione e del lavoro, con in più, rispetto al passato, l’emergere della questione ambientale, il dilatarsi della povertà, i nuovi scenari della globalizzazione.

I limiti imposti dall’Unione europea

Sul versante degli investimenti green perfino l’Unione Europea sembra orientata a rivedere le regole sui vincoli di bilancio, fino ad arrivare ad un riesame del Patto di Stabilità, con un riferimento agli investimenti pubblici ecosostenibili.
Sul piano sociale, gli ultimi dati Eurostat disegnano un quadro nel quale, per l’Italia, la forbice sociale si allarga, evidenziando come il 20% della popolazione con redditi più alti può contare su entrate superiori a sei volte quelle di coloro che sono nel quintile in difficoltà.
L’economia globalizzata,  favorendo lo spostamento della produzione verso i cosiddetti paesi in via di sviluppo (vere e proprie zone franche in cui i diritti umani non sono garantiti e dove i salari sono più bassi) ha reso evidente l’assenza dello Stato regolatore, a tutto vantaggio di un capitalismo senza frontiere e senza regole.

I limiti del radicalismo neo-liberista

Visto quel che è accaduto e sta ancora accadendo importa allora poco ricapitolare vecchie scuole e categorie desuete. Più significativo è attrezzarsi per definire nuovi assetti. Capaci di creare un diverso clima sociale, in grado di informare, di dare nuova forma e speranza al sistema-Paese.
Mettiamo perciò da parte le definizioni di scuola. Quelle con in testa il radicalismo neoliberista. Andiamo, piuttosto, alla sostanza delle cose. Magari con un occhio rivolto verso quello che una ventina d’anni fa si considerava un sistema al tramonto. La famosa economia sociale di mercato d’impronta renana, a fronte del trionfante modello “neoamericano”, fondato sui valori individuali. La massimizzazione del profitto a breve termine. Lo strapotere finanziario.
Risultati recenti ci dicono che lavorare per un progetto partecipativo e di autentica integrazione sociale dà buoni risultati sia per la crescita delle aziende e dunque del benessere dei lavoratori ed il giusto profitto del capitale sia, più in generale, per il sistema-Paese.

L’equilibrio tra rigore e sviluppo

Certo è che un nuovo modello di integrazione socio-economica non si improvvisa. Bisogna averne ben chiare le direttrici essenziali e su di esse lavorare con coerenza, in un attento equilibrio tra rigore e sviluppo, flessibilità e garantismo, capacità di programmazione ed adattabilità. Non escludendo l’intervento pubblico, a partire dai settori strategici delle infrastrutture, della Scuola e della ricerca, del gap demografico e dell’efficienza burocratica. Nessuno – sia chiaro – vuole restaurare l’idea di uno Stato omnia facies, talmente invasivo da occuparsi – per dirla con una battuta – della produzione dei panettoni. D’altro canto però i temi sul tappeto evidenziano un quadro generale di crisi che non può essere affrontato con strumenti usuali o peggio ancora appellandosi alle mitiche leggi di mercato, ormai alla corda.

Più Stato meno mercato: pro e contro

E’ piuttosto ad uno Stato autorevole ed inclusivo che bisogna fare appello, uno Stato, espressione di una Politica “alta”, che non sia solo momento di mediazione, quanto soprattutto luogo ideale per fissare priorità, per dare obiettivi, per costruire momenti concreti di dialogo e di concertazione, per “rivoluzionare” assetti obsoleti, inadeguati a rispondere al mutare della realtà sociale.
E’ insomma mettendo finalmente all’ordine del giorno del Paese non solo la stanca elencazione dei problemi, delle emergenze, dei tagli di bilancio che si può sperare di invertire l’attuale congiuntura. Al contrario è alzando il tiro nelle idee e nelle proposte che si può pensare di lavorare con lo sguardo rivolto “al dopo”. Pena un irreversibile tramonto.

Commenti

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  • Giovanni Giordano 22 Gennaio 2020

    Sono profondamente in disaccordo con il contenuto dell’articolo. Per me la priorità è liberarsi dalla sinistra che ha guastato il nostro paese e, ovviamente, sconfiggere e magari ridurre ai minimi termini i cinque-stelle che adorano l’intervento pubblico e sono nemici dell’iniziativa privata.
    Ammiro Giorgia Meloni ma nel vostro partito c’è il vuoto dietro dietro di lei.
    Siete rimasti quelli della destra sociale, date spazio ad analisi confuse come quelle delle lettera che avete pubblicato: è assurdo parlare di iper-liberismo in un paese come l’Italia dove, direttamente o indirettamente, il sistema pubblico controlla i tre quarti del PIL.

  • Laura Prosperini 13 Gennaio 2020

    Politiche che incoraggino e finanzino: idee, proposte, ricerca, investimenti soprattutto nei settori essenziali ed in quelli strategici
    anche (ed oggi direi soprattutto) senza ritorni economici speculativi immediati
    (come richiede la religione liberista)
    per cui…chi può attuare queste politiche?
    Lo Stato (dando così lavoro a molti giovani (e meno giovani) Italiani
    questo almeno per un nuovo “ventennio” di Sviluppo (tanto quanto quello a cui abbiamo rinunciato seguendo fallacità che non ci appartengono neanche Culturalmente)