Ecco come si dovrebbe comunicare in momenti di crisi: cosa ci insegna l’emergenza Coronavirus

27 Mar 2020 16:49 - di Letizia Di Tommaso
crisi

In molti, e non solo gli addetti ai lavori, hanno capito che la comunicazione è stata una delle grandi falle della gestione della crisi da coronavirus. Ma come va affrontato questo specifico settore dell’emergenza? E quanto incidono sulla crisi stessa errori e leggerezze? Soprattutto, quale peso continueranno ad avere anche nel futuro? Riprendiamo un articolo di un’esperta del settore, Letizia Di Tommaso, scritto per Agifactory  (www.agifactory.it) che affronta la questione della comunicazione in emergenza e crisi. E ci convince, una volta per tutte, che anche in questo ambito non c’è spazio per l’improvvisazione.

 

“Crisi delle mie brame, a chi lo scettro delle grane?”

Infodemia, overload, smart(full)working e altre parole simili sono entrate di prepotenza nella nostra quotidianità casalinga, fatta di un’attenzione ai dati e ai fatti divenuta spasmodica, rispetto solo a pochi mesi fa. Comunicazione in emergenza e crisi, spesso associate quando la prima non è ben governata e subentra la seconda (reputazionale). Il Covid-19 sovverte il sistema di informazione e di comunicazione creando una serie di cortocircuiti e, quindi, un effetto domino. Alcune riflessioni, a caldo, possono aiutarci a riordinare i pensieri di quella che per la prima volta rappresenta un’emergenza che coinvolge tutti, indistintamente.

1) Siamo passati dal “se” al “quando”. Un incubo

Quando si parla di emergenze sappiamo che c’è un tempo finito dell’evento. Ogni individuo, nella percezione del rischio, è portato a pensare durante un terremoto o durante un attentato: SE dovesse succedere a me? Se la scossa oppure l’atto terroristico di un folle sconosciuto dovesse arrivare fin dentro le mie abitudini? Siamo tutti portati a ragionare sull’eventualità che una determinata situazione emergenziale possa in qualche modo destabilizzare la nostra vita. Il pensiero di quanto un evento sia lontano da noi allontana la paura, rassicura sul tempo (finito) di una situazione che non abbiamo vissuto direttamente ma che siamo portati a recepire come prossima. Questo 2020 ci sta insegnando come questa percezione viene facilmente sovvertita: ognuno di noi ha trasformato il pensiero in concreta certezza: ovvero QUANDO tocca a noi, immergendoci in una paura che non è più narrabile come “semplice” percezione del rischio, che tanta letteratura del risk management ha descritto in questi anni. Dunque, quando in un’emergenza che ha, per ora, un tempo (non finito) che non sappiamo ancora determinare, il pensiero che questa pandemia possa toccare anche noi è tangibile, quasi evidente e, purtroppo, rappresenta la quotidianità di chi è abituato a soccorrere o di chi gestisce la comunicazione in emergenza, già addestrato a tempi sovvertiti e narrazioni definite. È la percezione del rischio ad essere mutata, insieme alla nostra paura che corre sempre di più sulla rete.

2) Le vittime siamo noi: la percezione di essere indifesi

Qualche anno fa, ragionando già sui terremoti ai tempi dei social (l’ultimo è stato quello del Centro Italia fra il 2016 e il 2017), ho definito la percezione di un evento calamitoso vissuto sui social media come una sorta di seconda sottile pelle trasparente, che resta addosso ad ognuno di noi, permettendo alle nostre paure di essere liberate e vissute quasi come partecipi diretti di una scossa o del crollo delle case. Leggere continuamente, condividere le paure, cercare informazioni da quelli che oggi definiamo citizen journalist, operativi sul territorio e pronti a diventare fonte narrativa di un determinato evento, hanno creato in questi anni una base informativa disintermediata, a cui troppo spesso attingono anche i media, per ottenere notizie immediatamente dopo l’avvenuta tragedia. E allora, questa contemporaneità della notizia, mai come questa volta, ci ha resi vulnerabili, posti sotto una lente d’ingrandimento al contrario, dove le vere vittime siamo noi, che ogni istante ci informiamo di una realtà sempre meno governabile e sempre più governata dagli eventi, che si susseguono, mai come in questo caso troppo veloci e vicini a noi.

3) Il peso delle parole, le parole contano

Siamo in guerra, Terza Guerra Mondiale batteriologica, dove le armi sono diventate gli esseri umani gli uni puntati verso gli altri da un virus che si è trasformato nella causa principale di morte, come le bombe lanciate dagli aerei deflagrando sulle vite di migliaia di sconosciuti, nei treni e nei luoghi affollati. Si è rovesciato il paradigma operativo dove Protezione civile, volontari e sanitari sono in prima linea a combattere per debellare il virus, mentre ai corpi militari è affidato un ruolo di seconda linea, chiamati a scortare chi ormai non è più fra noi. Virus Cinese, lo definisce l’americano Trump, dandone una connotazione geopolitica che ci porta immediatamente a percepire l’altro come il nemico, l’untore. E poi? E poi abbiamo scoperto che gli untori siamo tutti noi. Ma nella narrazione ormai troppo frenetica, persino per chi è abituato a raccontare i tempi che corrono, queste parole sono diventate metafore quotidiane che descrivono una percezione ancora più spaventosa di una realtà che nulla ha a che vedere con la guerra.

4) Comunicazione istituzionale, ruolo del governo, digitale

Il Presidente Conte, in prima persona, decide di affrontare anche la narrazione quotidiana, diventando portavoce di tante, troppe incertezze dovute ai tempi convulsi, continui cambiamenti e decisioni rinviate. Come nelle migliori telenovele, ormai il pubblico italiano ogni giorno si aspetta il colpo di scena che, purtroppo, spesso è rappresentato da una gestione goffa di documenti che seguono, e non precedono, comunicazioni ufficiali date a mezzo stampa, o peggio, sui canali digitali personali o istituzionali, senza disintermediazione alcuna. Una tenzone politica che si combatte a suon di mascherine, utilizzate come simbolo della malattia di una politica immobile, dirette Facebook e file che corrono sui cellulari, persino in formati word e non ufficiali. Ognuno di noi, per mostrarsi inserito nel processo informativo istituzionale, ha diffuso in maniera scriteriata, condividendo con colleghi ed amici, quegli atti deputati a decidere del nostro immediato futuro, aggiungendo confusione all’incertezza.

Se c’è una lezione, al di là dell’aver comunicato bene o male da parte di un Governo – che speriamo abbia finalmente compreso l’importanza di una crisis room, che sappia gestire l’emergenza in maniera adeguata utilizzando al meglio strumenti, messaggi e informazione di pubblica utilità – è quella che la comunicazione interna ormai corre su “canali troppo esterni” per non prendere precauzioni: da quando esistono le App di messaggistica istantanea, le informazioni corrono sul condividi e sull’inoltra messaggio, e governare un tale processo durante una crisi nazionale come questa è decisamente impossibile. Incertezze narrative e documenti intempestivi creano più danni di un virus letale come il Covid-19, questa è la lezione.

5) Comunicazione istituzionale, la voce degli enti territoriali

Una comunicazione responsabile nei disastri naturali è possibile. La Carta di Rieti è un documento pensato e promosso da professionisti della comunicazione in emergenza e crisi: nove comportamenti che guidano i professionisti verso una narrazione più consapevole di situazioni emergenziali che coinvolgono popolazione e istituzioni. E a differenza della comunicazione impacciata del Governo centrale, tanti sono stati gli esempi virtuosi, di Comuni e Regioni, dove la comunicazione al cittadino è stata chiara e puntuale, organizzata in tempi brevi e multicanale per essere costante, così da informare il cittadino su quanto si sta facendo per far fronte ad un problema che riguarda tutti. Consolidare la fiducia è la chiave di questo periodo.

6) Il bollettino delle 18 e il modello di informazione al cittadino

Il modello applicato è lo stesso di tante altre emergenze, ma come già detto al punto 1 il tempo indefinito di una situazione emergenziale come questa ha creato un cortocircuito percettivo davvero notevole. Il momento informativo quotidiano, quando il DPC – Dipartimento Protezione Civile – non utilizzava i canali social, veniva diramato unicamente in sala stampa, ora viene seguito da migliaia di utenti senza disintermediazione e senza moderazione alcuna, fra chi commenta in maniera spesso inopportuna. Così, in questo tempo non finito di un’emergenza che sta stravolgendo tutti i modelli comunicativi applicati finora dalle istituzioni, il bollettino delle 18 è vissuto da tutti come una conta indiscriminata, numeri di un’Italia sotto attacco. L’informazione al cittadino si è trasformata in un effetto boomerang che ha ingenerato maggiori insicurezze e certamente acuito le polemiche di dati non conformi alla realtà.

7) La disintermediazione ai tempi di una crisi epocale e globale

Il focus dell’informazione in tempo reale si è spostato sul digitale, la televisione viene dopo, organizzando speciali ed approfondimenti, ma il dato confermato è che il digitale ha soppiantato la stampa cartacea e le tv troppo ingessate in palinsesti di intrattenimento. Le maratone Mentana sembrano appartenere ad un’altra era, l’Enrico nazionale è stato superato dalle dirette in cui a dare informazioni sono le istituzioni e, dove, i giornalisti pongono domande a distanza. Oggi è già il futuro dell’informazione come ce la raccontiamo da qualche anno, dove il digitale sta accompagnando la generazione del Coronavirus verso un nuovo modo di concepire il mondo. A distanza, ma vissuto istante per istante.

Appartengono ad un’altra era i to be continued dei telefilm anni ‘90, ma ora più che mai le analisi di questa crisi epocale necessitano di un tempo di riflessione per essere aggiornate ed esaminate nelle aule o nei webinar. Noi continueremo a raccontare, a comunicare e a sperare che il mondo esca di casa consapevole che i valori umani sono al centro di ogni narrazione possibile.

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