L’Italia è un Paese bloccato: il Rapporto sulla mobilità sociale ci indica i modi per farlo ripartire
Riceviamo da Mario Bozzi Sentieri e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
Dopo gli anni dell’egalitarismo a buon mercato (tutti uguali per mantenere, nella sostanza, le vecchie rendite di posizione, trasmesse di padre in figlio) è tempo di riportare al centro del dibattito nazionale il tema della mobilità sociale, l’unico strumento per ridare all’Italia quella dinamicità ormai persa da decenni e per riaccendere, soprattutto tra le giovani generazioni, aspettative oggi sopite.
A ricordarcelo, dati alla mano, il primo rapporto annuale Global Social Mobility Index sulla mobilità sociale, dal quale emerge come in una società capace di offrire a ciascuno pari opportunità di sviluppare il proprio potenziale, a prescindere dalla provenienza socio-economica, non solo ci sarebbe più coesione sociale, ma si rafforzerebbe anche la crescita economica. Un aumento della mobilità sociale del 10% spingerebbe infatti il Pil di quasi il 5% in più in 10 anni.
Sono ben poche, tuttavia, le economie che hanno le condizioni giuste per favorire la riduzione delle disparità e l’inclusione. Le chance di una persona nella vita sono sempre più determinate dal punto di partenza, cioè dallo stato socio-economico e dal luogo di nascita. Di conseguenza le disuguaglianze di reddito si sono radicate e le classi sociali sono “ingessate”.
Alle spalle di Cipro, Lettonia, Polonia
E veniamo all’Italia. Nell’indice di mobilità sociale, il nostro Paese ottiene un punteggio di 67, con cui supera di poco Uruguay, Croazia e Ungheria e resta alle spalle di Cipro, Lettonia, Polonia e Repubblica Slovacca. L’Italia segna la sua migliore performance nell’ambito della salute, potendo contare sul nono posto per la qualità e l’accesso alla sanità e sul quarto posto per l’aspettativa di vita. In termini di accesso all’istruzione, qualità ed equità, il nostro Paese da un lato gode di un buon ratio studenti-insegnanti, dall’altro – rileva il rapporto – da “una mancanza di diversità sociale” nelle scuole, che non favoriscono cioè l’inclusione tra ceti diversi. Un’annotazione che pare trovare riscontro anche in recenti fatti di cronaca, che hanno sollevato l’accusa di scuola “classista”.
Tra i punti deboli anche l’alta percentuale di inattivi (Neet, né al lavoro né in formazione) tra i giovani (quasi il 20%) e le scarse possibilità di formazione continua, che limitano le opportunità di apprendimento per i lavoratori. Solo il 12,6% delle aziende – sottolinea il rapporto – offre una formazione formale e per i disoccupati è difficile accedere a corsi per migliorare le competenze. Tra le aree su cui intervenire figura, ovviamente, quella delle opportunità di lavoro, dove l’Italia è al 69mo posto, penalizzata dagli alti livelli di disoccupazione.
Immobilismo sociale
In sintesi: ad uscire fuori è la fotografia di un Paese che tende all’immobilismo sociale. E quindi raffredda le aspettative e le ambizioni della società. Frustrando l’accessibilità alle varie posizioni sociali. Attraverso una serie di vincoli strutturali, riconducibili all’autoreferenzialità dei diversi gruppi professionali. Alla cooptazione delle classi dirigenti, ad un sostanziale rigidità dei cosiddetti “processi ascensionali”.
Che fare? Per far ripartire l’ascensore sociale, il rapporto consiglia, tra le altre misure, di rafforzare la progressività delle tasse sui reddit. E poi riequilibrare le fonti di tassazione. Introdurre politiche che contrastino la concentrazione di ricchezza. Puntare sull’istruzione e sulla formazione continua, migliorando la disponibilità, la qualità e la diffusione dei programmi educativi. Sarebbe poi necessario offrire una protezione a tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro stato occupazionale. In particolare nel contesto del cambiamento tecnologico e delle industrie in transizione. Le aziende, dal canto loro, dovrebbero avere un ruolo guida. Promuovendo una cultura di meritocrazia nelle assunzioni. Fornendo formazione professionale, migliorando le condizioni di lavoro e pagando salari equi.
Da parte nostra vorremmo aggiungere una necessità di fondo: fare sistema. Creare, insomma, quei doverosi collegamenti territoriali, interaziendali, di categoria, in grado di favorire le sinergie sistemiche nell’ambito della scuola, della ricerca, della formazione, dell’accesso al credito, della selezione della classe dirigente. Con al fondo la consapevolezza di quanto sia necessario investire per favorite quella mobilità interna, capace di creare nuova ricchezza reale e aspettative vere in un Paese altrimenti destinato ad un cronico immobilismo. Senza una nuova dinamicità, è la stagnazione sociale a vincere, una stagnazione ben più grave di quella produttiva.
Ho una certa età ma, in tutta franchezza, un governo più catastrofico di questo non l’ho mai visto. Ma davvero l’Italia non merita di meglio? Possibile affidare la guida di un Paese nelle mani di un dilettante incapace? All’estero cosa dicono quando arriva Giggino? Si mettono a ridere oppure fanno finta di niente? Poveri noi !!!!
attenzione ad esaltare questi strumenti del globalismo speculativo quali flessibilità, mobilità temporaneità
sono legati, tutti, ad una cera precarietà del lavoro e più in generale della vita
relativizzando e marginalizzando certi valori fondamentali ai quali crediamo (p.es. famiglia).
Soros è il primo assertore della mobilità sociale dell’intercambiabilità spinta
e di tutto ciò che ne deriva (fino alla teoria gender).
Non crediamo che siccome la tecnologia cambia debba necessariamente (senza convinzione e merito) cambiare anche l’uomo
gli strumenti possono essere flessibili, intercambiabili, mobili
l’uomo ha bisogno anche di fissità, di continuità, di costanza
per poter essere un tramandatore e non un traditore di quella che noi chiamiamo cultura tradizionale
Estote parati, Soros potrebbe nascondersi anche fra noi distraendoci con semplici e falsi slogan alla bisogna.