Coronavirus, la drammatica testimonianza: «Sono moglie di un positivo, vi racconto la mia odissea»

17 Apr 2020 19:29 - di Redazione
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La solitudine dei parenti dei malati di coronavirus. Isabella, avvocato residente a Milano, racconta la sua odissea. La sua vita è cambiata da un giorno all’altro, quando ai primi di aprile il marito 51enne è stato ricoverato in gravi condizioni in un ospedale della metropoli, l’Istituto clinico Città Studi. Diagnosi purtroppo scontata: Covid-19.

Coronavirus, la testimonianza

È allora, testimonia la donna all’Adnkronos Salute, che si rende chiaro come “la gravità della situazione la stavamo guardando da un oblò”. «Ho provato a fare tutta la trafila ed è disperante», ha riferito. Il primo passo è stato chiamare il numero ministeriale 1500. «È come parlare con un registratore inutile – ha osservato Isabella – I volontari ci mettono tanta umanità, ma sono impotenti, possono dare solo informazioni di base, già superate dagli eventi. La prima domanda che ti viene in mente è: io e mio figlio 13enne dobbiamo fare il tampone visto che abbiamo vissuto in casa con una persona positiva al virus, condividendone spazi vitali? Inutile dire che, ancora oggi, non c’è stato nessun tampone per noi».

L’assistenza dei medici di famiglia

Dopo il 1500 «il secondo passo è chiamare il servizio dell’Ats». Lì prendono i dati. «Dati che dovrebbero esistere già: avendo io un parente Covid, sono stati inseriti dal medico di base». I medici di famiglia sono un altro tassello del sistema e, ha sottolineato Isabella, «fanno tantissimo, sono gli unici in grado di darti un aiuto concreto. Il problema sono tutti questi passaggi che visti dall’interno sembrano protocolli inutili. Protocolli inutili che legano le mani dei camici bianchi».

La donna ha elogiato «l’ottimo operato dei medici. E pensare che io sono stata seguita dal sostituto della mia dottoressa, che è stata 40 giorni in malattia a casa e non ha ricevuto un tampone neanche lei al momento. Il medico che l’ha sostituita mi chiama ancora oggi per accertarsi che tutto vada bene». Sull’altra sponda, in ospedale, «gli specialisti che stanno seguendo mio marito si fanno in quattro. Non posso che dire grazie per l’attenzione e la cura che ci mettono in questa situazione drammatica con i reparti pieni di malati».

Coronavirus, l’iter della malattia

«Mio marito – ha ripercorso – ha cominciato a sentirsi male il 25 marzo, aveva una febbriciattola che non superava 37,5. Doveva rientrare il 3 aprile al lavoro, ma nel fine settimana comincia ad avere la febbre molto alta. Arriva il 112 e gli misurano la saturazione. È a 94 e gli operatori dicono che è una situazione al limite, tenuto conto anche di alcuni problemi di salute che lo mettono più a rischio. C’è indecisione sul da farsi, anche perché mio marito vorrebbe aspettare».

Il giorno dopo la febbre supera 40. «Chiamo di nuovo il 112 – dice Isabella – Arrivano gli operatori e ci passano un medico al telefono”. Sarà lui a decidere. Comincia la trafila. «Mio marito parla al telefono e sembra reattivo. Io insisto. Il medico lo fa camminare, contare, c’è tutta una procedura ben definita» che permette di farsi un’idea della condizione del paziente. E infatti è così che il medico decreta la necessità del trasporto in pronto soccorso.

L’uomo verrà ricoverato prima in sub-intensiva e poi in terapia intensiva. Sperimenterà la mascherina e il casco Cpap, verrà sottoposto a vari trattamenti. Ancora oggi è in ospedale, ma è uscito dall’area intensiva. «La mia impressione è che si perda del tempo prezioso tra l’insorgere della malattia e la fase acuta. Forse se non avessi insistito mio marito lo avrebbero dovuto intubare. È una malattia dai sintomi subdoli».

 

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