Tony Augello moriva vent’anni fa. La sua eredità è sempre viva, come il suo sorriso
Tony Augello morì il 19 aprile del 2000, all’età di 44 anni. Vent’anni fa. Gli amici, i familiari e i militanti che lo hanno stimato e benvoluto ogni anno si riuniscono per la messa in suffragio. Quest’anno non è possibile. “Lo ricorderemo degnamente non appena questa notte sarà passata” dice il fratello Andrea, che sta lavorando a un libro su Tony.
La tenacia del ricordo, il legame tra Tony e chi ogni anno lo rimpiange non sono stati scalfiti dal tempo. C’è una ragione per questo. Era un politico generoso e intelligente. E’ vero, ma non basta a spiegare il senso di vuoto che ha lasciato. Era un capogruppo abile e preparato della destra capitolina. Uno che amava stupire, lasciare gli avversari a bocca aperta. Era un sindacalista di battaglia, molto ammirato nel settore Ugl-Credito un tempo Cisnal.
La vecchia scuola missina lo induceva a intestarsi battaglie non destinate alla vittoria ma proprio per questo da lui più coltivate, più ricercate, combattute con ostinazione particolare. Gli bastava la vespa, un megafono, e anche solo due militanti fidati.
La politica lo ha attirato fin da adolescente. Si era iscritto alla Giovane Italia (poi Fronte della Gioventù) a Bari a tredici anni. Frequentava il liceo classico Flacco. Fu individuato come fascista e preso a calci. La mattina dopo aveva in tasca la tessera. Di sé raccontava: «Ho scelto la destra per una motivazione estetica. I comunisti erano insopportabilmente arroganti. Sembravano fatti in serie. E poi, a tredici anni, che altre motivazioni puoi avere… Mi scazzottai con quello che mi aveva preso a calci e andai alla sede del Msi».
Nel 1972, allo stesso liceo che gli aveva chiuso le porte in faccia, i giovani del Fronte erano sessanta. Un nucleo di tutto rispetto, e Tony li capeggiava. Quando la famiglia si trasferì a Roma lui se ne andò alla sede di via Sommacampagna con una lettera di presentazione. Lì incontrò Teodoro Buontempo che, a torso nudo, ridipingeva le pareti. Si strinsero la mano e cominciò così l’avventura politica che avrebbe portato Tony Augello all’elezione in Campidoglio nel 1993.
Aveva inoltre il gusto della provocazione goliardica, come quando, da consigliere comunale a Civitavecchia, fece scrivere in giapponese un cartello contro il gemellaggio con un paesino nipponico. Nel passaggio dal Msi ad An scelse la linea di quelli che non intendevano essere liquidatori verso la precedente esperienza politica: «Del Msi mi piaceva lo stare spalla a spalla con gli altri, la condivisione di qualcosa di importante ma di indefinito. Il Msi era il grande diverso in un paese in cui tutti correvano ad abbracciare il vincitore. Non mi pento di niente, rifarei tutto».
Poi c’era l’uomo Tony Augello. Quell’essenza che rende tutti noi speciali e unici e figuriamoci se ciò non valeva per lui. Innanzitutto c’era questo suo senso di protezione e ammirazione (ricambiato) per il fratello Andrea. Un rapporto consolidato fin dall’infanzia. Andrea Augello raccontò dopo i funerali che il fratello usava leggergli libri di avventure, storie in cui entrambi si identificavano. Per Tony la militanza era un’avventura, vissuta come se si trovasse dentro un romanzo. Tra i suoi preferiti l’epopea sudista di Via col Vento, anche (ma non solo) per la frase di Rhett Butler sulle cause perse, così piene di fascino, così intriganti.
Ha cercato con insistenza il suo posto di soldato nello scacchiere che il suo tempo gli metteva di fronte. Lo abbiamo apprezzato anche per questo. Ma soprattutto perché, adesso che siamo tutti un po’ avanti con gli anni, il suo sorriso indulgente ci torna in mente a farci comprendere che la politica è sangue e merda sì, ma non se la sai trasfigurare in epopea. Tony ne era capace. Faceva il suo dovere, ma divertendosi.
Era protettivo anche verso la sua comunità di riferimento, la sezione Aurelio. Non solo verso gli attivisti, ma anche verso i loro familiari: fratelli, sorelle, madri, padri. Con tutti stabiliva un legame solido, a tutti faceva la tacita promessa che non li avrebbe delusi. Queste cose le fanno i veri leader, lo sappiamo. Immagino che nelle ultime settimane di malattia abbia pensato a tutti, a uno a uno. Io gli portai dei libri in regalo. Tanti libri. La cosa lo fece sorridere, ma non volle dirmi che non avrebbe avuto il tempo di leggerli. Mi disse anzi che quando fosse stato meglio se ne sarebbe andato in un posto pieno di sole. E lì, chissà, li avrebbe letti.
Ed è appunto in un posto pieno di sole che voglio immaginarlo, sorridente e schietto. Ancora protettivo verso noi tutti, intento a sostenerci e a prendersi gioco con leggerezza dei nostri passi falsi. Noi che lo salutiamo, riconoscenti, ogni 19 aprile e che quel sorriso ce lo teniamo dentro da vent’anni.
Grazie, Annalisa!