“Casa, dolce casa”: così la pandemia ha fatto giustizia della globalizzazione buonista
Pandemia docet. Casa, dolce casa. Non se ne poteva proprio più. Si, era diventata una litania ormai insopportabile. Continuavano a ripeterci che avremmo dovuto eliminare i confini nazionali, per aprirci al mondo e alla globalizzazione, che avremmo dovuto abbattere i muri per condividere spazi ed ospitare amici, sconosciuti, nemici e “diversi”. “Ponti e non muri” era il ritornello in tutte le lingue, con tutti i toni morbidi o arrabbiati.
La pandemia ha aperto gli occhi a molti
La signora del salotto buono dei Parioli, a Roma, o della elegante Via Monte Napoleone, a Milano, prendendo il suo the alle cinque del pomeriggio, condannava barriere, frontiere, porte e portoni. L’attivista sindacale della fabbrica metalmeccanica e la suffragetta volontaria della onlus che vuole salvare l’ultima foca ed il penultimo elefante, ma poi rivendica l’aborto libero e l’eutanasia per il vecchio malato, vagheggiava una società aperta, ecumenica, mondalista.
Quando la questione è seria, la musica cambia…
Poi “quando arrivano i tempi in cui è questione di vita o di morte – ha scritto Ernesto Galli della Loggia – allora conta davvero chi parla la tua stessa lingua e condivide il tuo passato, chi ha familiarità con i tuoi luoghi e ne conosce il sapore e il senso, chi canta le tue stesse canzoni e usa le tue medesime imprecazioni”. La pandemia da coronavirus ha cambiato tutto e quegli stessi che ci facevano lezione di buonismo ora sono i più rigorosi nel chiedere di interrompere le relazioni e i voli internazionali, sono gli stessi che ci dicono di restare a casa per evitare qualsiasi tipo di contatto.
Anche perché si accorgono ora che ci siamo scambiati i mali con il resto del mondo. “Vedi i turisti del Nord Italia respinti al mittente al loro arrivo nelle isole Mauritius – scrive l’amico Claudio Antonelli, che scrive per la mia rivista “Intervento nella Società” – . E vedi le due navi da crociera italiane cui è stato rifiutato l’approdo. Non c’è che dire, il ruolo si è paradossalmente invertito. Oggi sono gli africani e i loro discendenti a respingere i nostri italiani. Italiani “disperati” perché così bisognosi di vacanze esotiche”.
La pandemia fa sì che lo straniero sia controllato
Ed «oggi, con il coronavirus sono in auge blindature e cordoni sanitari intorno ad intere aeree, all’interno persino della stessa nazione». – continua sempre Antonelli – «Oggi, il “diverso”, non è più da accogliere a braccia aperte, ma da sottoporre a verifica con termometri, quarantene e, se necessario, respingimento al luogo d’origine». Così le quattro mura della nostra abitazione sono diventate la rocca del castello medioevale.
E quanto più era mondialista prima del virus, tanto più, il buonista di turno è diventato rigorosamente nazionalista. E riscopre,come ha dichiarato il sociologo Francesco Alberoni, che “con la ricomparsa del pericolo è ricomparso lo Stato”. …quello “Stato che sembrava un’entità inesistente, buona solo a distribuire i benefici di cittadinanza, un colabrodo”. Però è sempre lui, il buonista, quello del pensiero politicamente corretto, che sale sempre in cattedra. Sia quando era convinto che il Covid-19 era una semplice influenza e che si poteva prendere l’aperitivo a Milano sui navigli con cinesi ed amici di partito. E quando era disponibile ad accogliere chiunque nel nostro Paese ma non a casa propria naturalmente. Sia anche oggi che si chiude in casa e rivaluta le mura domestiche che lo difendono e lo salvaguardano dalla malattia.
La casa è il rifugio dal virus
La verità è che la casa con le sue mura, le sue pareti è diventata il nostro rifugio, il luogo che protegge noi e la nostra famiglia dalla pandemia. Nelle nostre abitazioni è rinato lo spirito familiare e comunitario, dentro quattro mura si lavora e si lavorerà sempre più. Da quel luogo si diramano e si hanno rapporti con tutto il mondo. La casa torna ad essere la “domus” di memoria romana come centro di affetto, di lavoro, di affari e di relazioni politiche.
E’ cambiato il rapporto emotivo e sentimentale con la “nostra” casa, che è tornata ad essere il centro della nostra vita. Come una volta. Quando tutta la famiglia si riuniva intorno alla tavola per il pranzo e la cena. Come quando i nonni di fronte al camino o intorno al braciere (non esistevano ancora i termosifoni) ci raccontavano favole indimenticabili e, prima di mandarci a letto, a noi bambini facevano recitare le preghiere. Altro che ponti, passerelle e scale mobili, si è tornati al castello fortificato, al territorio delimitato dall’aratro, ai confini per difendersi da malattie e dalle invasioni di tutti i generi.
Tra le eredità della pandemia c’è la riscoperta della casa
Certo non per tutti la casa è o può diventare tutto questo. “Non sempre è un rifugio, il luogo del calore, la patria morale che non si vede l’ora di rivedere dopo una giornata di lavoro” – scrive Pierluigi Battista sul supplemento 7 del “Corriere della sera” -. “Se la casa è lo spazio degli affetti primari, spesso la sua bruttezza, la sua ubicazione, il suo stile, o meglio mancanza di stile, rovinano quegli stessi affetti”. Per cui il bravo giornalista de “Il Corriere” conclude con la speranza “che il virus venga debellato e che le persone siano liberate da una condizione di casalinghitudine disperata”.
Chi, invece, ha la fortuna di stare bene nella propria casa e si sente a proprio agio ed è contento di passare tanto tempo nel calore familiare come me (e da buon napoletano faccio i proverbiali scongiuri) spera che tra le tante eredità negative che ci lascia questa pandemia ci sia per qualcuno la riscoperta della “casa,dolce casa”.