Il “caso Tortora” compie 37 anni. Ma la giustizia italiana è ancora una “colonna infame”
Il calvario giudiziario di Enzo Tortora compie 37 anni. Cominciò con un clic fatto scattare dai carabinieri ai polsi del popolarissimo conduttore tv una delle pagine più nere della pur abbondante malagiustizia italiana. L’accusa che gli muoveva la Procura di Napoli è tra le più devastanti per un innocente: associazione camorristica. Tortora il gentile, Tortora il perbene, Tortora il borghese era, per i pm partenopei, sodale dei brutti ceffi che in quei tempi arrossavano di sangue Napoli e la Campania con centinaia di morti all’anno. È da cerchiare quel 17 giugno del 1983. E non solo perché coincide con uno dei più clamorosi ed imperdonabili errori giudiziari, ma perché segna l’avvio della stagione del pentitismo juke-box e assurge a prova generale di quello che avremmo imparato a riconoscere come il circuito mediatico-giudiziario.
Enzo Tortora fu arrestato per camorra il 17 giugno del 1983
Lo sguardo smarrito di Tortora in manette, esibito come uno trofeo davanti a fotografi e cameraman resta la colonna infame dei nostri giorni. È il preludio al macello. Lì lo attendono legioni di pentiti prezzolati, liberi di scorrazzare nella caserma Pastrengo. Liberi persino di parlarsi e quindi di concordare versioni con cui incastrarlo. Basterebbe un bambino a capire che Tortora è innocente, anzi – come puntualizza lui – «estraneo» a quel po’ po’ di accuse surreali. Ma per la Procura è un «cinico fabbricante di morte». Non gli risparmiano nulla: il sodalizio con Cutolo, ‘O Prufessore, la spaccio di droga, i summit con Francis Turatello e persino la cresta sui soldi ai terremotati dell’Irpinia, raccolti grazie a lui dalla Rai. Un mostro.
Il conduttore morì un anno dopo l’assoluzione definitiva
Se ne convince anche il collegio di primo grado che lo condanna a 10 anni. Saranno i giudici di appello a cancellare quella sentenza ripugnante. Ma non a far carriera come invece capiterà ai colleghi che l’hanno sprofondato all’inferno. Tortora muore un anno dopo l’assoluzione definitiva da parte della Cassazione. Giusto il tempo di ritornare davanti al pubblico di Portobello per pronunciare l’ormai famoso «dunque, dove eravamo rimasti?». Cercava di chiudere la porta. Ma era il primo a sapere che non ce l’avrebbe fatta. Si è preso la sua rivincita sulla morte elevandosi a simbolo di chi soffre per la giustizia. «Sono tanti e sono troppi», disse Tortora. Ancora oggi, aggiungiamo noi. Chissà se il guardasigilli Bonafede se ne sarà reso conto.