G8, lo sfogo dell’agente condannato per la Diaz: “La mia vita rovinata, nessuno ci ha aiutato”
”Una vergogna assoluta. 19 anni di travaglio, di menzogne, 19 anni che stiamo cercando di far emergere la verità. Nessuno può davvero capire e rendersi conto di quello che è successo. Ho pagato per qualcosa che non ho mai commesso, solo per aver detto le cose come sono andate. Solo per non aver mai mentito”. Si sfoga così Angelo Cenni, uno dei 7 capisquadra del VII Nucleo del Reparto Mobile di Roma condannati per i fatti della Diaz, la notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001.
Cenni: ho pagato per colpe non mie
”Mi hanno rovinato la vita, da innocente. Ho pagato colpe non mie, sia in sede di giudizio, sia a livello amministrativo. Dopo la condanna ‘per non aver denunciato le violenze’, sono stato trasferito da un’altra parte, mi hanno ridotto lo stipendio, chiuso a lavorare dentro una stanza grande un metro e mezzo per due, un computer che non funzionava, il telefono rotto. Un incarico praticamente fantasma che, alla fine, mi ha portato alla decisione di andare via dalla polizia perché non ce la potevo più fare”.
“Era troppo facile colpire noi”
Cenni non ha alcun dubbio sulla vicenda che lo ha visto coinvolto. ”Era facile colpire noi, troppo facile, lo ho capito poco dopo, quando ci chiamarono ai reparti speciali e ci dissero ‘noi sappiamo che non c’entrate nulla, ma dovete tenere profilo basso’. Lì ho capito che era la fine. I colpevoli dovevamo essere noi 7 capisquadra piuttosto che gli oltre 300 agenti presenti. Sapevano i nomi di tutti, ma non hanno mai indagato. Così era stato deciso. Amministrazione, magistratura, tutti hanno preso la strada più facile da percorrere. Sui colleghi Panzieri e Nocera penso addirittura che ci siano gli estremi per una revisione del processo visto che sono stati prima assolti e poi condannati senza nemmeno essere stati ascoltati”.
Eravamo testimoni, siamo diventati imputati
Il caposquadra del VII Nucleo si concentra sulle relazioni redatte e firmate. ”Tutte le persone entrate alla Diaz avevano il dovere di farle, ma non gli sono mai state chieste, lo hanno fatto solo con noi e quella è stata la nostra fine. Sapevano di funzionari lì dentro, i nomi degli agenti non sono mai usciti. I pm da testimoni ci hanno trasformato in imputati. E ci hanno condannato. Io ho detto pure che le porte erano chiuse, altri che fossero aperte. La verità ho detto e mi sono sentito chiamare ‘assassino delinquente e torturatore’, ma io ho scritto quello che ho visto. Forse sarebbe stato meglio se fossi rimasto in silenzio come gli altri? No, un buon ufficiale non si comporta così”.
Il libro di Schena sul processo
“Nel libro di Roberto Schena ‘G8, processo al processo’ – prosegue – che spero possa aiutarci a portare alla luce la verità, viene riportata fedelmente la vicenda dell’agente L., che, mentre stava soccorrendo una ragazza dai pestaggi, è stato colpito da una manganellata di un collega. La donna ha confermato, ha testimoniato in suo favore e la sua tesi nemmeno è stata presa in considerazione. Vi rendete conto? Poteva essere un test importante e invece niente”. Infine, Cenni ha voluto mandare un messaggio alle Istituzioni: ”Di noi non è importato niente a nessuno. Siamo stati abbandonati da tutti, anche dal mondo della politica, destra o sinistra fa lo stesso. Tutti si sono riempiti la bocca con frasi di vicinanza alla polizia, proclami di scoprire la verità e consegnare alla giustizia i veri colpevoli del Diaz. In realtà non è stato fatto nulla. Ci avrebbero dovuto difendere e non lo hanno fatto”.