Pensioni baby, ci costano 7 miliardi l’anno (e l’80 per cento sono donne)
Costano 7 miliardi di euro l’anno agli italiani le baby pensioni pagate dallo Stato e nell’80 per cento dei casi sono corrisposte alle donne.
Una voragine finanziaria paragonabile al 0,4 per cento del Pil nazionale. Oppure, per prendere ad esempio un altro parametro, equivalgono allo stesso importo previsto quest’anno per il reddito o pensione di cittadinanza. E, addirittura 2 miliardi in più della spesa necessaria nel 2020 per pagare gli assegni pensionistici a coloro che beneficeranno di quota 100.
Lo ha scoperto l’Ufficio studi della Cgia che ha recuperato i dati Inps riferiti ai pensionati baby presenti nel nostro Paese. E li ha, poi confrontati con la dimensione economica del reddito di cittadinanza e di quota 100.
“Due misure, queste ultime, che sono nel mirino dall’Unione Europea. Non è da escludere, infatti, che Bruxelles ci chieda di rivederle. In caso contrario corriamo il pericolo che una parte degli aiuti previsti dal ‘Next Generation EU’ ci siano negati”, afferma il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo.
Per titolari di baby pensioni la Cgia intende quanti abbiano lasciato il lavoro prima della fine del 1980.
“In totale sono quasi 562 mila le persone che non timbrano più il cartellino da almeno 40 anni“, calcolano ancora gli Artigiani di Mestre. Di queste, oltre 386 mila sono costituite in massima parte da invalidi o ex dipendenti delle grandi aziende.
“Se i primi hanno beneficiato di una legislazione che definiva i requisiti in misura molto permissiva, i secondi, a seguito della ristrutturazione industriale avviata nella seconda metà degli anni ’70, hanno usufruito di trattamenti in uscita dal mercato del lavoro molto generosi”, annota ancora Cgia.
Della squadra delle ‘Baby’ pensioni fanno parte anche 104 mila ex lavoratori autonomi, oltre la metà proveniente dall’agricoltura solo una piccola parte, pari al 10,6%, poco meno di 60 mila unità,di ex-dipendenti pubblici.
Tra i pensionati baby, prosegue la ricerca Cgia, sono i dipendenti pubblici ad aver lasciato il posto di lavoro in età più giovane, mediamente a 41,9 anni.
Mentre nella gestione privata l’età media della decorrenza delle pensioni è scattata dopo, a 42,7 anni.
In entrambi i casi, comunque, l’abbandono definitivo del posto di lavoro è avvenuto praticamente con 20 anni di età in meno rispetto a chi, oggi, usufruisce di quota 100.
Attualmente, le persone che sono andate in quiescenza prima del 31 dicembre 1980 hanno un’età media di 87,6 anni.
Sono le donne nel confronto di genere ad avere la maggioranza delle pensioni baby.
Le donne baby pensionate sono, infatti, 446 mila su un totale di 562 mila baby pensioni.
Insomma le donne sono il 79,4% del totale. E “solo” 115.840 sono uomini, il 20,6%.
In definitiva c’è un “conflitto” generazionale e di genere fra i giovani che rischiano di non vedere la pensione e chi invece l’ha presa troppo presto. Come quelle 446.000 donne.
In termini di età anagrafica, però, a lasciare prima il lavoro è stato il sesso forte con una media di 40,6 anni, contro i 43,2 anni delle donne.
Infine, sia per i maschi sia per le femmine l’età media in cui hanno percepito il primo assegno pensionistico è stata più bassa tra gli occupati nel pubblico che nel privato: mediamente di 6 mesi in entrambi i casi.
Ancorché siano una piccola minoranza rispetto al numero totale presente l’1 gennaio 2020, quando si parla di pensionati baby, annota ancora la Cgia, il ricordo va agli ex-dipendenti del pubblico impiego. Che hanno potuto beneficiare di norme estremamente favorevoli per andare in pensione anticipatamente.
Mentre, prosegue la Cgia, in questo ventennio, nel pieno del regime retributivo, sono stati riconosciuti i requisiti per il pensionamento alle impiegate pubbliche con figli dopo 14 anni, sei mesi e un giorno contro i 19 anni e mezzo degli statali e i 25 anni dei lavoratori degli enti locali.
“Non c’è nulla da stupirsi, dunque, se nello scacchiere europeo l’Italia, anche al netto delle uscite assistenziali, sia da anni tra i paesi che spendono di più per la previdenza, sacrificando altri settori come quello dell’istruzione, dove siamo tra le realtà che in Europa investono meno”, ragiona il segretario della Cgia Renato Mason. Che ricorda come la spesa previdenziale nel nostro Paese sia particolarmente alta.
Anche perché, osserva Mason, “registriamo un’età media tra le più elevate al mondo: facciamo pochi figli, ma viviamo meglio e di più di un tempo. Quindi la popolazione tende ad invecchiare”.
”Si pensi – conclude Mason – che nel 1981 il numero degli over 80 presenti nel nostro Paese superava di poco il milione. Nel giro di 40 anni gli ultra ottantenni sono quasi quadruplicati: all’inizio di quest’anno avevano superato quota 3,9 milioni“.