Il Ponte di Calatrava è un cazzotto nello stomaco. Venezia non merita i capricci narcisi delle archistar
Andare a Venezia e sostenere una conferenza stampa in un albergo storico posto sotto il Ponte moderno di Calatrava mette l’ansia. L’armonia leggiadra della Laguna, le facciate merlettate dei palazzi di ricchi mercanti. Le palificate in legno conficcate nel terreno morbido delle isole lagunari a consolidare a mestiere il limo. Il largo uso della pietra bianca e impermeabile d’Istria sono colpiti da un cazzotto nello stomaco rappresentato da questo mostro d’acciaio e vetro voluto dall’allora sindaco rosso Massimo Cacciari.
Venezia, basta capricci autoreferenziali
Quando si ha la fortuna di guidare la ‘città unica e irripetibile’ si deve capire che basta vivere di rendita, con restauri, consolidamenti, ristrutturazioni, completamenti, riproduzioni e brigare con lo Stato per realizzare infrastrutture degne dell’età moderna. Ma l’architettura no, quella non la si deve toccare, semmai occorre ‘venezizzare’ Mestre e non ‘mestrizzare’ Venezia. Ma come si fa a dare l’incarico a manomettere la terra dei Dogi a un’archistar che ha fatto la sua fortuna progettando opere che ignorano il contesto in cui sono collocate in tutto il mondo? L’antitesi dell’identità, la costruzione anonima e spersonalizzata che si compone di capricci autoreferenziali e mette in mostra il progettista invece che l’architettura.
Il Ponte di Calatrava è un mostro da buttare giù
E poi ‘sto ponte’ nemmeno si sostiene a causa di una curvatura troppo ribassata. Spinge sulle due sponde che s’inabissano, fino al punto da aver costretto a far lavorare in eterno due enormi martinetti (a spese dei veneziani). Per non parlare delle cadute da parte dei turisti che scivolano, soprattutto d’inverno, sulle pedate della scala, inopinatamente realizzate in vetro. Perché non tutti gli architetti sanno, in special modo quelli miliardari, che il vetro è sdrucciolevole. L’obiettivo utopistico e idiota voleva essere quello di far attraversare il ponte dalla luce. Ma quale luce? Le lastre di vetro per sostenere il peso dei pedoni sono talmente spesse che hanno il colore dell’alabastro e non le trasparenze del cristallo. E Venezia è una città sull’acqua, tra le più umide al mondo. Non ci voleva una scienza per capire che la condensa avrebbe trasformato i gradini in piste di pattinaggio e i pedoni ci sarebbero volati sopra come Carolina Kostner. Chi ha pagato fino a oggi i risarcimenti per le fratture procurate? Calatrava? Cacciari? No, le ha pagate il Comune di Venezia, cioè i cittadini contribuenti.
Fa più feriti di una guerra
Infine non si può non evidenziare che anche le conseguenze urbanistiche sono state negative. Perché il Ponte dell’architetto catalano ha spostato i flussi dalla sponda con esercizi commerciali e attività artigianali a quella della stazione ferroviaria. Creando un grave danno sociale ed economico. E ora, che fare? In epoche migliori si sarebbe fatta probabilmente autocritica. E immaginata una repentina demolizione del mostro, recuperando il tanto ferro e il vetro da impiegarsi in più nobili cause.
Servirebbe un ministro coraggioso
Oggi si troverà mai un ministro per i Beni culturali capace di dare un calcio nelle palle a un’archistar? Che sappia proteggere e incoraggiare un sindaco a purificare il territorio dai mostri (sacri, ma sempre mostri). E a restaurare il profilo della sua città (skyline) deturpato dai narcisisti? Ecco, la ricetta per il ‘Pondulo di Calatrava’ può essere duplice. Buttarlo giù convocando i riciclatori di ferro che farebbero grande festa. Oppure chiedere agli artisti di tutto il mondo di acquistare ciascuno un gradino a 50mila euro l’uno per realizzare un’opera ruvida e rettangolare. Delle dimensioni di una pedata e chiudere con questa pagliacciata di un ponte che fa più feriti di una guerra. Perché la sinistra radical chic di Cacciari voleva vergare la Repubblica di Venezia con un ‘segno’. Il segno del provincialismo, della presunzione, dell’idiozia.