Contro Alemanno sentenza politica. È tempo di fare luce sulla (in)giustizia a senso unico
Si è detto già tutto sulla sentenza bis che ha confermato la condanna per corruzione di Gianni Alemanno. Merito soprattutto del Riformista, che ha illuminato come meglio non avrebbe potuto le incongruenze di un verdetto a dir poco sorprendente, per non dire addirittura sconcertante. Ci limiteremo pertanto a ribadire che l’ex-sindaco di Roma è un corrotto senza corruttori. Una enormità per un reato a concorso necessario, dove uno lancia l’amo e l’altro afferra l’esca. Qui, però, il primo manca perché nel parallelo processo di Mafia Capitale, di cui quello di Alemanno è uno stralcio, la Cassazione ha derubricato in traffico di influenza il titolo di reato contestato ai coimputati dell’ex-ministro. Ciò nonostante, i giudici di Appello hanno quasi raddoppiato l’entità della pena richiesta dalla Procura generale: sei anni invece di tre e mezzo.
Il centrodestra difenda Alemanno
Certo, scriveranno le loro motivazioni. Ma prima facie appare innegabile che Alemanno sia tecnicamente ostaggio di una contesa interna alla magistratura sul significato politico di Mafia Capitale. E qui davvero stordisce il silenzio del centrodestra, romano e nazionale, che anche in questo frangente si è limitato a fischiettare con la testa rivolta dall’altra parte. È evidente, e in parte è comprensibile, che non voglia farsi risucchiare dalla vicenda Alemanno. E, quindi, chi lo conosce… Ma il problema permane, grande come non mai. Perché non ha senso giocare la partita se l’arbitro indossa la maglietta del colore (più o meno) di una delle squadre in campo.
25 anni di intrecci tra toghe e sinistra
È questo il punto segnalato dalla vicenda di Alemanno. Ma che cos’altro deve accadere per convincere chi di dovere che il virus della giustizia politicizzata è pernicioso almeno quanto il Covid. Quanti Palamara dovranno ancora dire «Salvini ha ragione, ma dobbiamo attaccarlo»? E quanti «plotoni d’esecuzione» (copyright giudice Amedeo Franco) dovranno ancora giustiziare Berlusconi? E perché a Fontana contano pure i peli sulla testa mentre a Zingaretti neanche le dita della mano. Eppure, qualche inghippo sulle mascherine c’èstato anche nel Lazio. O no? Insomma, che cos’altro deve accadere per spronare Salvini e Meloni a pretendere l’istituzione di una commissione parlamentare che faccia luce sul verminaio parzialmente scoperchiato dal caso Palamara. Si convincano una buona volta che fino a quando resisterà l’incesto tra toghe e politica, a loro sarà consentito solo di vincere le elezioni. Non certo di governare.