Walter Pedullà e “Il pallone di stoffa”: il libro di memorie di un (giovane) novantenne
Per i novant’anni, compiuti qualche settimana fa, Walter Pedullà ha pensato bene, coerentemente con la sua storia personale, di studioso e critico nemico degli stereotipi, di fare lui un regalo ai tanti amici: un’autobiografia, anzi, più precisamente, un libro di memorie. La puntualizzazione è necessaria perché la memorialistica è un genere coltivato soprattutto da condottieri, vincitori o vinti che siano. Nel primo caso per concentrare su di sé i meriti del trionfo, sottacendo il ruolo di alleati spesso determinanti, nel secondo per scaricare su altri la responsabilità della sconfitta. Da Giulio Cesare a Napoleone, tanto per capirci, o, per venire a tempi più recenti, a Churchill (la cui “Storia della seconda guerra mondiale” gli valse addirittura il Nobel) o a De Gaulle.
Walter Pedullà e la critica militante
Pedullà può essere annoverato senz’altro fra i primi, per due ragioni, una seria, l’altra (forse) pure: la prima, aver trascorso l’intera esistenza lavorativa, più di settant’anni, a combattere battaglie in difesa della sua idea di letteratura, nell’esercizio di quella critica che egli si compiace di definire “militante” non come connotazione descrittiva di una pratica, ma come professione di fede – e si sa che la fede in una religione è la causa delle guerre più acerrime; la seconda, poter vantare una sorta di predestinazione alla lotta in grazia dell’etimologia del suo nome da lui stesso così ricostruita: “Walter, di origine tedesca, deriva dalla somma di Walt o Wald e Heri, che fusi insieme significano Capo dell’esercito”. Anche il cognome peraltro enfatizzerebbe le caratteristiche… bellicose del portatore, derivando pare dall’arabo Pdla, che sarebbe uno dei novantanove nomi di Allah. Per fortuna, anche un ego decisamente… sovrappeso come quello del nostro Walter prova un certo imbarazzo a elencare simili… ascendenze, per cui, nel divertente capitolo dedicato appunto all’onomastica, evita il rischio della mitomania riportando due testimonianze di segno opposto, quella di Saverio Strati, lo scrittore calabrese da lui tanto amato, il quale lo informò (non so se per puro affetto o con sottile perfidia…) che esiste una parola ebraica, pedulas, che vale calzolaio, e quella di un linguista calabrese secondo il quale pedullare vuol dire chiacchierare…
Chiacchierone per necessità
Che Pedullà sia un chiacchierone, anche se, come dice lui, “per necessità”, è fuor di dubbio, ma la sua non è la famigerata Gerade, la “vuota” chiacchiera, stigmatizzata come tale da Heidegger, bensì quella affabulatoria propria dei narratori. E Pedullà è, per giudizio condiviso da tanti, un grande narratore. Prova ne sia, fra le altre, la spiccata capacità, che molti romanzieri di professione o drammaturghi gli invidierebbero, di disegnare dei ritratti fulminanti. Puntuale ed esilarante il paragrafo dedicato all’“ira funesta”… di Ungaretti, quando si vide preferito, in un’antologia di poeti moderni, l’odiato Montale. Ma il libro è pieno di figure tratteggiate con precisione in poche battute: “Oscar Luigi Scalfaro, busto fiero, quasi marmoreo, cordiale conversatore dall’eloquio ciceroniano … Cossiga sprizzava intelligenza dagli occhi e dalla bocca, ed era parlatore facondo e brillante, con una lingua ad alto tasso di metafore: figura retorica con cui non si nomina una verità ma se ne suggeriscono almeno due, forse false … Andreotti era di una cortesia impeccabile ma ritrosa. Non stringeva la mano, allungava la punta delle dita di una mano pendula, restia al contatto. Quando ingobbito alzava lo sguardo, gli occhi erano di ghiaccio e il sorriso era appena accennato dalle labbra sottili”.
Il peccato di presunzione
Malgrado tali virtù, Pedullà si dedica soltanto alla critica e alla saggistica, evitando così il peccato di presunzione in cui incorrono volentieri i critici, anche i più blasonati (un esempio, da evitare…, per tutti, il sommo Steiner, il quale compose un vituperevole e giustamente dimenticato romanzetto: “Il correttore”). Nell’affermare con manifesto orgoglio di non aver “mai scritto neppure un raccontino”, ricorda di aver resistito anche all’accorato appello del direttore di una biblioteca comunale al quale regalava i suoi saggi, e che invece avrebbe preferito dei romanzi. Pedullà virgoletta la perorazione dello sconosciuto bibliotecario, ma è troppo cattiva e mirata per non essere sua…: “Perché non passa anche lei al romanzo? Con la sua scrittura e con la sua fantasia, provi pure lei con la letteratura amena. Lo fanno tutti i vecchi professori universitari in disarmo. Asor Rosa, che non è l’ultimo venuto, l’ha fatto, lo fanno anche i giornalisti vecchissimi come Scalfari, che non si fa mancare nessun genere letterario, ne ha parlato benissimo “la Repubblica”, tutti scrivono capolavori e lei no che è professore e giornalista”.
L’infallibile arciere e il vecchio prof in disarmo
Se il brano non è inventato di sana pianta, e io propendo entusiasticamente per il sì…, è una prodigiosa infilata di più bersagli con una sola freccia. In poche righe l’infallibile arciere (altro che Guglielmo Tell o Robin Hood…) dà del “vecchio professore universitario in disarmo” al docente dal nome palindromico a cui recentemente la Mondadori ha dedicato un ampiamente immeritato “Meridiano” che comprende, oltre ai saggi critici, di per sé non memorabili, anche le cosiddette “prove narrative” (per fortuna rimaste tali…); sottolineando inoltre che non si tratta “dell’ultimo venuto”, finisce per insinuare che potrebbe anche esserlo…; dà poi del “giornalista vecchissimo” (che è un dato anagrafico reale, ma potrebbe anche significare che è il suo giornalismo a essere decrepito) a Scalfari, il quale, affetto da irrefrenabile bulimia letteraria, “non si fa mancare nessun genere” e, guarda un po’, “ne ha parlato benissimo la Repubblica”, vale a dire il quotidiano da lui stesso fondato… No, se la mano che impugna l’arco non è dello stesso Pedullà, è senz’altro da lui guidata fermamente…
Pedullà e le doti di narratore
Le sue doti di narratore emergono prepotentemente anche in questa autobiografia, scritta su insistente richiesta del suo editore (alla quale per nostra fortuna egli non ha opposto una strenua resistenza…), che è, al contempo: una saga familiare, il Romanzo della Letteratura Italiana del Novecento, il Romanzo della Critica Letteraria dello stesso periodo e il romanzo della vita di un uomo che ha attraversato, da protagonista impegnato su vari fronti, quasi l’intero secolo più lungo della storia. È un peccato che né l’autore né l’editore abbiano ritenuto di elencare, nell’indice, insieme con i titoli dei capitoli, anche quelli dei paragrafi, tutti estremamente accattivanti, alcuni geniali. Si tratta di “occhielli” o sottotitoli retaggio probabilmente dei tanti anni trascorsi a dirigere (e scrivere, a volte anche con pseudonimi) le pagine culturali dell’“Avanti”.
Cronaca di un decesso passeggero
Ne do un assaggio: Introduzione – Per cominciare la morte, Alcuni buoni motivi per non morire, Cronaca di un decesso passeggero, Meditazione di Pertini sulla tomba di Riccardo Lombardi, La paura è il nemico mortale del riso; Capitolo primo – Mio padre, mia madre e il fratello vicepadre, L’estetica del cappotto, Molte molliche fanno una pagnotta, Racconto di Natale, Il primo caduto nella battaglia per la casa, La chiamavano Marcellina. Era mia madre, Il primo fratello fu il secondo padre. Mi fermo qui lasciando ai lettori il divertimento (che non è solo tale) di proseguire. Sono dei trailers, capaci di accendere la curiosità e nello stesso tempo una guida per orientarsi nel vastissimo “mondo di ieri” evocato. Sono talmente indovinati ed evocativi che, da soli, costituirebbero anche una sorprendente e originalissima auto-recensione, una vera novità assoluta. O quasi: sono certo infatti che Pedullà saprebbe tirar fuori qualche nome fra quelli da lui maggiormente frequentati (Manganelli? Savinio? Malerba? Palazzeschi? Zavattini? Campanile?) che si è già autocelebrato in tal guisa…
Scrittura sempre più densa
Ho una proposta per l’autore stesso, se ne avrà voglia, o per qualcuno dei suoi tremila laureati, parecchi dei quali saliti in cattedra, mutuando il suggerimento da lui dato agli ammiratori dell’amato Pagliarani: “se li estraete dal contesto, potete farne un gruzzolo di detti indimenticabili”: estrapolare appunto dal corposo volume tutte le frasi memorabili, e sono tantissime; formerebbero, con l’indice ampliato di cui ho lamentato l’assenza, una sorta di “catechismo” (non me ne voglia Pedullà per questo termine), di manuale d’uso, per allenare l’intelligenza. La sua scrittura col tempo è diventata infatti sempre più densa. Una volta sviluppato l’argomento, con il massimo di chiarezza reso possibile dal diverso grado di complessità, le parole si raggrumano repentinamente in una “coda” che, riassumendo icasticamente i concetti appena espressi, li spinge in avanti o meglio in alto, costringendo il lettore a seguirlo in questa continua scalata.
Pedullà e l’inaspettata scelta del taglio
E la lingua, sempre elegante, ha un ritmo, pur nella “sprezzatura” che è la sua cifra stilistica peculiare, una musicalità, che ti invade: dopo aver letto alcune pagine, ti resta negli orecchi e nel cervello, come uno di quei brani musicali dal potere quasi ipnotico che, ascoltato anche solo per pochi minuti, ti accompagna per giorni e giorni. Inaspettata la scelta del “taglio”. Fra gli innumerevoli che avrebbe potuto adottare, forte del sofisticato armamentario retorico di cui dispone, stupisce quasi che si sia orientato sul più semplice e difficile: quello della sincerità, che è cosa ben diversa dalla verità, questa presumendo di possedere una validità oggettiva, mentre la sincerità è soltanto un atteggiamento mentale ed emotivo.
Quell’uomo pieno di tristezza…
Da queste memorie vien fuori il ritratto di un uomo pieno di tenerezza, soprattutto quando parla dell’amatissima moglie Anna Maria, sua compagna di vita da più di sessant’anni (“ragazza di esuberante bellezza, meglio si direbbe beltà, capelli rossi, occhi azzurro-verdi, vita snella, febbrile sensibilità, infantile e sagace … ci misi otto anni per convincerla”), o del figlio Gabriele, suo degno erede nel campo della critica letteraria (con l’aggiunta di qualche felice escursione in quello narrativo), al quale lo lega un sentimento “paterno e fraterno al tempo stesso” (assai raro fra padri e figli, più frequente fra madri e figlie) e finanche di Masolino e Fosco, i due gatti che “vissero, l’uno venti anni e tre mesi e l’altro venti anni e sei mesi”, entrambi sepolti nella sua dacia di Città della Pieve, un casale rimesso a nuovo, circondato da un grande parco, con alberi da frutto che danno solo “fronde e foglie”, un’immensa quercia e duecentosessanta preziosissimi ulivi, che “producono soltanto venti litri d’olio”.
Nessuna caduta nel sentimentalismo
Ma è nella rievocazione della famiglia d’origine e dei luoghi dell’infanzia che la sua “tenerezza” raggiunge vette di puro lirismo, senza mai scadere nel sentimentalismo: il padre sarto-filosofo, grande lavoratore, la madre, figura determinante per la formazione dei figli, indotti a studiare duramente per salire su quell’ascensore sociale che da anni purtroppo appare bloccato ai piani bassi, e i fratelli, dall’amato Gesumino, morto prematuramente, allo sfaccendato ma simpatico Alfredo, alle sorelle “di rara bellezza”; Siderno, il luogo natale a cui tuttora rimane legato da un amore senza condizioni. E la Calabria, mai rinnegata, sempre immanente nel suo carattere, e finanche nell’accento, ineliminabile, per quanti bagni in Arno o in Adige o in Tevere egli possa aver fatto. E dei calabresi Pedullà possiede i pregi, che sono tanti – la forza, la determinazione, la tenacia, il coraggio (anzi la spavalderia), l’intelligenza pronta, l’innata antiretorica, le capacità manageriali, le doti organizzative…, è solo per pudore che mi fermo – e buona parte dei difetti, che sono pure tanti e che non elencherò per complicità di corregionale…
Il titolo e il compromesso linguistico
Il titolo del libro è pur esso un “amarcord”, anche se la “stoffa” del pallone è un falso, o, meno duramente, un compromesso linguistico (e perciò culturale), necessitato dal fatto che esisteva già un libro col titolo corretto, che, come lo stesso autore precisa nel capitolo dedicatogli, sarebbe stato “Il pallone di pezza”, fatto cioè con le “pezze” di stoffa insaccate a forza in una calza fino a renderla dura e approssimativamente di forma rotonda, con cui da ragazzi nell’immediato dopoguerra giocavamo al calcio in campi improvvisati. Nel dialetto sidernese di Pedullà si chiama “fallu”, nel mio, più a sud, diventa “faddhu”, con una maggiore durezza nella pronuncia, e probabilmente del manufatto.
Pedullà e i mutamenti epocali
Non sono riuscito, neppure consultando monumentali dizionari calabresi, a capirne l’etimologia che, data la forma obbligata dell’oggetto in questione, non dovrebbe avere nulla a che vedere con simboli priapici… Non è facile rendere conto dell’immensa mole di spunti che il volume contiene. L’autore evita giustamente di proclamare l’avvento di mutamenti epocali a ogni svolta di decennio… Del resto, se Ariosto si dimostra più attuale di un Arbasino o di un Calvino, il mondo, e perciò anche la letteratura che gli dà forma, si muove con mutamenti impercettibili.
Dalla saga familiare all’inseguimento
Dopo i primi capitoli dedicati alla saga familiare, il resto è focalizzato sugli ambiti in cui è stato protagonista per oltre cinquant’anni: l’insegnamento, a tutti i livelli, dai licei tecnici a quelli classici, all’università; la letteratura contemporanea, le attività correlate (le più di venti giurie di cui ha fatto parte: “qualcuna soltanto in meno di Carlo Bo”), la politica culturale o meglio la “critica militante”; la politica tout court; la fondazione e direzione di prestigiose riviste e collane editoriali; la Presidenza della Rai e del Teatro di Roma. E ne avrò dimenticato sicuramente qualcuno.
Niente cesura tra passato e presente
L’effetto più sorprendente del modo di lavorare sulla memoria che mette in atto Pedullà, è quello di eliminare la cesura fra passato e presente. I ricordi, sia quelli attinenti a fatti privati, sia quelli relativi a vicende, politiche, sociali, culturali, nelle quali ha agito da protagonista, rielaborati, “ruminati”, nel tentativo di dar loro un senso che vada oltre il mero accadere, diventano attuali, mostrano cioè di far parte costitutiva del presente. Echeggiano a ogni passo i versi eliotiani dei “Four Quartets”: Time past and time present are in the time future. Citando, un po’ arbitrariamente (ma non tanto, dato lo spiccato interesse di Pedullà per la fisica moderna), il fisico Rovelli, in questo momento agli onori della… satira, potrei dire che la “struttura quantica” della memoria di Pedullà fa sì che non sia possibile distinguere il passato dal presente o dal futuro.
Il percorso a grandi linee
Seguirò io stesso il suggerimento che poco fa ho dato all’autore, estraendo dal “gruzzolo di detti indimenticabili” quelli che mi servono per illustrare a grandi linee, il suo percorso.
La formazione. Intanto il dovuto ringraziamento al suo Maestro, Debenedetti. “era qualcosa in più (l’insegnamento di Debenedetti) ma era soprattutto qualcosa d’altro. Non solo nuovo sapere, ma nuovi modelli del sapere.” Da ricordare che al maestro l’allievo prediletto, succedutogli poi sulla stessa cattedra, ha dedicato il volume forse più riuscito fra i trenta e più che ha scritto.
A briglia sciolta
Quindi il riconoscimento dei… debiti, sia ancora una volta con il platonico Debenedetti che con l’aristotelico Della Volpe, suoi docenti all’università di Messina: “uscii che avevo versato nella mia testa tre quarti di debenedettismo e un quarto di neoaristotelismo dellavolpiano. Metto così parecchia storia nella psicanalisi e nello strutturalismo, miscelo marxismo e formalismo, cerco significati nell’astrattismo, la figura umana nell’informale, inseguo la vita nella retorica più sofisticata, trattengo per la coda chi spinge lo sperimentalismo verso l’autoreferenzialità, riconduco all’espressione la comunicazione cui ho dato briglia sciolta illimitata, e acchiappo sempre il soggetto che si è immerso nella realtà oggettiva che lo renderà diverso. E ci metto sempre qualcosa di mio. Chiunque scrive parla anche un po’ di se stesso, ma questo non dovevo scriverlo.“ L’ultima affermazione è del “narratore” Pedullà, tant’è che immediatamente dopo essersela lasciata sfuggire, cerca di nascondere la penna.
Il Fronte Popolare
Le battaglie: “Ho combattuto per il Fronte Popolare nel ’48, contro la ‘legge truffa’ nel ’53, per la nazionalizzazione dell’energia elettrica, per lo Statuto dei lavoratori, per la Riforma della RAI, per divorzio e aborto. E sono stato il primo a scendere in guerra contro ogni tentativo di restaurazione dell’ancien régime, che aveva lo zoccolo duro nella destra DC. Lo stesso dicasi delle battaglie letterarie: neorealismo, neosperimentalismo, neoespressionismo, neoavanguardia, ‘franchi narratori’, ‘selvaggi’, ‘cannibali’ e latri divoratori di lingue che l’abuso ha reso inespressive.”Andrebbe aggiunta l’ultima, una battaglia “minima” se si vuole, ma che stava per costargli la vita, come ricorda nella sapida introduzione al volume, quella contro i… refusi, che una negligente redattrice si ostinava a non voler correggere.
La contestazione studentesca
In piena contestazione studentesca, così si rivolgeva ai suoi studenti, definendo in poche battute un vero e proprio manifesto programmatico di ciò che deve essere l’insegnamento: “I libri si scrivono solo se si ha qualcosa di nuovo da dire, e il nuovo che ambisca alla svolta culturale non scende nel cervello come l’acqua. Il mio dovere è quello di venirvi incontro, ma il vostro è quello di avvicinarvi al mio linguaggio: se, più che chiaro, è banale trasmette solo banalità.”
La critica militante: “Quello del critico militante è un mestiere odioso perché attira odio: è più duraturo il rancore dello stroncato che non la gratitudine del lodato. Da critico militante combatto due battaglie non sempre coincidenti: prima, per un’estetica, una poetica, una corrente, una finzione; seconda, per un talento, per i risultati artistici, per un’opera emozionante, per un grande scrittore.”
Stefano D’Arrigo
E a proposito di grandi scrittori, il più grande, quello da lui seguito per un’intera vita, e del quale sta tuttora curando la pubblicazione dell’opera omnia, Stefano D’Arrigo, autore del monumentale Horcynus Orca,: “Aveva creato una lingua italiana arricchita dai dialetti per aggiungere ciò che ancora il lettore non sa sull’amore, ogni amore, sulla morte, ogni modo di morire, sul mare e sui delfini che sono così simili agli uomini. Che sono tutti uguali, se la prosa diventa liquida per attraversare i canali che conducono da un particolare della vita a ogni altro: come per l’amore, che è amore naturale in tutte le sue forme.”
L’impegno politico: “No al pubblico che consuma allegramente risorse dei cittadini e no al privato che con la violenza sottrae diritti agli individui. Sì al pubblico che gestisce i beni comuni con la passione con cui ognuno fa l’interesse privato”. Potrebbe, anzi dovrebbe, essere il manifesto programmatico per il ruolo che va assumendo la Cassa Depositi e Prestiti, quello di un nuovo IRI in un contesto economico e sociale assai simile all’immediato dopoguerra.
Il “capitolo” delle polemiche
Polemiche: quella con “Cesarino” Garboli è ai limiti dell’area non proprio epica del gossip, sia pure di un certo livello, ma utile a mettere a fuoco due concezioni del mestiere del critico, la prima come funambolismo intellettuale, non dichiaratamente programmatico (come quello per esempio di Arbasino, che diventa così un vero stile) e perciò spesso gratuito, quando non mistificatorio, come nel caso dell’introduzione a Molière, nella quale Garboli afferma che se l’Italia avesse avuto un commediografo come il francese, sarebbe stato diverso il carattere dei suoi abitanti; giustamente Pedullà obietta che non si vede quale effetto abbia prodotto l’autore di Tartuffe sui suoi concittadini…; la seconda come impegno civile e sociale, oltre che culturale. A quest’ambito sono da ascrivere anche i “pentimenti”, come il lodevole mea culpa a proposito di Baricco, valutato inizialmente al di sopra dei suoi meriti e in seguito correttamente ridimensionato, e il signorile… distacco dal fenomeno editoriale Camilleri.
Storia generale della letteratura
Alcune delle linee guida della grande Storia Generale della Letteratura (sedici volumi realizzati insieme con il sodale di una vita Nino Borsellino): “non ci sono secoli bui, bensì secoli oscurati … spesso la periferia fa centro meglio del centro”. Che è come dire, capacità di vedere oltre la cortina dei giudizi consolidati, spesso soltanto stereotipi radicati nella cultura corrente per pigrizia mentale, e il “riformismo” sociale applicato, in maniera originale, anche alla letteratura, senza cadere nel dogmatismo di tanti (a torto) celebrati (cosiddetti) maestri di scuola marxista. “Io alla letteratura ho sempre chiesto di rispondere in ultima istanza della vita” – se Pedullà avesse uno stemma araldico, questo potrebbe essere il suo motto.
Pur avendo dato dimostrazione, nelle cinquecento e passa pagine del libro, della sua straordinaria memoria che, come gli disse uno dei suoi maestri, “non basta, ma è utile”, si permette la civetteria di non ricordare chi abbia affermato che “lo stile è l’uomo”. Faccio finta di credere alla momentanea amnesia e gli offro la citazione originale, che è di Buffon, sia nella sua versione più secca: le style c’est l’homme, sia in quella più distesa: le style c’est l’homme même.
Entrambe si possono utilizzare per definire il (giovane) nonagenario Walter Pedullà.
Walter Pedullà
Il pallone di stoffa
Memorie di un nonagenario
Rizzoli, pagg. 544, Euro 22,00