Covid, la difesa dei diritti si è trasformata in aggressione alla persona. Qualcosa non quadra
Difesa dei diritti. Da Stefano Cherti, professore di Diritto Civile all’Università di Cassino, riceviamo e volentieri pubblichiamo
In quest’anno scandito inevitabilmente dall’emergenza Covid siamo diventati tutti un po’ più virologi e un po’ più giuristi. Termini come tamponi molecolari, carica batterica, Dpcm e ordinanze di ogni ordine e grado sono diventati lessico comune. Non c’è conversazione che non tocchi, almeno per un attimo, gli ambiti della microbiologia o del diritto costituzionale. Quanto a quest’ultimo, abbiamo imparato a conoscere (e ad apprezzare) i diversi diritti costituzionalmente garantiti; libertà di movimento, diritto al lavoro e alla salubrità dei luoghi, quello alla salute, quello all’inviolabilità del domicilio. Giorno dopo giorno siamo stati chiamati a confrontarci con quanto la pandemia ha influito su certezze e situazioni che sembravano dati acquisiti, con “convinzioni granitiche” che non si sarebbero mai potute mettere in discussione.
Tralasciando l’aspetto infettivologico, per quanti invece si sono confrontati col dato giuridico e con la tutela delle libertà e dei diritti dei soggetti, è sembrato inevitabile notare come nelle scelte dei governanti e nelle applicazioni concrete delle norme che di mese in mese si sono vorticosamente avvicendate vi sia stato un approccio freddo e distaccato. Sin dai primi provvedimenti, diritti nati per tutelare le persone, hanno dimenticato proprio il loro essere mezzi (per migliorare lo status dei cittadini), e non un fine, scollegati dalla realtà in cui sono chiamati ad operare.
I differenti diritti (ad esempio quello alla salute, o quello alla salubrità dei luoghi) sono stati difesi, ovvero altri compressi (ad esempio il diritto di muoversi senza limitazioni, o quello di ricevere nella propria residenza chi si vuole) senza che gli uni e gli altri trovassero un punto di equilibrio. La difesa dei diritti “senza se e senza ma” si è trasformata in un’aggressione alla persona, destinataria ultima di questi diritti.
Si sono avute affermazioni rigorose sulla primazia del diritto alla salute: la salute prima del lavoro, della libertà personale, della libertà di movimento. La salute prima di tutto (e di tutti). È mancato, invece, ogni riferimento alla dignità umana. Eppure la dignità è principio fondamentale cui si ispira il legislatore e ne troviamo traccia in diversi articoli della nostra Carta. Senza dimenticare che l’art. 32 Cost. che tutela proprio il diritto alla salute si chiude con un richiamo al legislatore di ogni ordine e grado ammonendo che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E allora non c’è tutela della salute se si privano i malati anche solo di un abbraccio da parte dei propri familiari, e si lasciano per settimane in reparti sovraffollati; non si salvaguarda la vita di una persona se nel momento terminale le si impedisce un ricongiungimento ultimo con i propri cari. Non vi è alcuna tutela della salute se si dimentica la dignità e se i trattamenti sfociano in comportamenti che non rispettano la persona umana.
Le classifiche sulla forza di un diritto rispetto ad un altro non hanno alcun senso se non si considera che al primo posto, l’unico che conta veramente, c’è la persona (una persona in carne ed ossa, con la sua vita e i suoi affetti).
Avv. Prof. Stefano Cherti
Professore di Diritto Civile nell’Università di Cassino
email: cherti@avvocatocherti.it