Paolo Rossi in arte Pablito: quando un nome ordinario si arrende alla forza del destino
Nomen omen: nel nome il destino. Fosse sempre vero, ci sarebbe da chiedersi che ci faceva un cognome così irrimediabilmente ordinario appollaiato su un destino tutt’altro che comune. Di “Paolo Rossi” nell’elenco telefonico di ogni città d’Italia, borghi compresi, se ne trovano a bizzeffe. E dubitiamo che a vederlo sgambettare nel campo del Santa Lucia di Prato a qualcuno sia passato per la testa che a dispetto delle sue generalità quello scricciolo sarebbe un giorno riuscito a non farsi dimenticare. E non solo in Italia, ma in tutto il mondo. A cominciare dal Brasile, dove quel nome evoca tuttora sciagure più rovinose di una pestilenza. Non hanno torto. Se per noi Paolo Rossi è stata l’elsa della spada, a loro è toccato assaggiarne la lama.
Grazie a Paolo Rossi azzurri tricampeones
Vindice delle nostre delusioni, «boia» delle altrui illusioni. Un eroe o un campione è tale solo per la parte che gode delle sue imprese. La sua è quella di risorgere al momento giusto: contro il Brasile, la vera finale. Quella ufficiale che ci trova opposti ai panzer della West Germany è mera procedura. Lo sconfitta non è contemplata. Infatti, i campioni del mondo siamo noi. Nando Martellini lo grida tre volte dopo il fischio finale del brasiliano Arnaldo César Choelo. Tre quante sono le coppe, comprese le Rimet del 1934 e del 1938: Roma, Parigi, Madrid. E così assurge a simbolo anche il Pertini che esulta sugli spalti del Bernabeu: è l’Italia antifascista che espone in bacheca il primo trofeo mondiale dopo quelli conquistati in piena era mussolinana. Almeno nel calcio non ci sono più cesure tra un prima e un dopo. Vittorio Pozzo ed Enzo Bearzot si abbracciano idealmente. Grazie a loro siamo tricampeones. Come noi, solo la Seleçāo di Pelè.
La polvere del calcio-scommesse
È un successo figlio di tanti padri, quello del 1982. Ma la firma che vi resta scolpita è quella di Paolo Rossi, da quel momento Pablito a perenne sottolineatura dell’impresa in terra di Spagna. Ma non solo. Quel nomignolo di conio iberico è anche rivelatore della forza del destino. Ci anticipa che quel Paolo Rossi lì non rimarrà a bagnomaria nell’elenco telefonico. E sì che l’aveva rischiato. Basti ricordare che all’appuntamento con la gloria il futuro Pablito si presenta ancora sporco della polvere del calcio-scommesse. Ha sul groppone due anni di squalifica che lo hanno fiaccato nel corpo e nell’anima. E il coro di dubbi e di critiche che ne accoglie la (ri)convocazione in Nazionale certo non lo aiuta. In campo è molle e spaesato. I guizzi e i lampi che precedevano i suoi gol-rapina sono solo uno sbiadito ricordo.
Un campione conteso tra i tifosi e gli dei del calcio
Ma il destino ha già avvertito Bearzot: solo se scommette contro tutto e tutti su quel centravanti dal crine arruffato, i suoi leveranno la Coppa al cielo. In quell’inafferrabile mistero ludico che è il calcio, Paolo Rossi è conteso e sospeso tra le passioni degli uomini e i capricci degli dei del pallone. E a seconda di chi prevale, lui cade e risorge. Succede fin dentro il match della sua apoteosi. È il quinto minuto quando “liscia” clamorosamente la palla nell’area del Brasile. Ne segue una goffa piroetta su stesso che lo spedisce a faccia in giù sul prato del Sarrià. Sembra l’epilogo impietoso di una promettente carriera spezzata da ingiuste accuse. Invece è il prologo di un’inattesa resilienza. Gli dei non vogliono darla vinta agli uomini: Paolo Rossi si rialza e si dà forza. Di lì a poco segnerà la tripletta che lo consacrerà alla storia del calcio. E che lo trasfigurerà nel Pablito che mai prenderà congedo dalla nostra memoria e dai nostri cuori. Finché vivremo.