Mario Pomilio e quell’incontro “rivoluzionario” che provocò la sua conversione anche politica
Nell’ordinario, quotidiano impegno,che ciascuno mette nel tentare di dare soluzione alle problematiche che l’esistenza pone, può accadere di fare degli incontri “rivoluzionari”. Quelli che rimettono in discussione tutti i nostri convincimenti, parametri, metodi per cercare di affrontare al meglio la vita. Incontri, come quello che ebbe, lo scrittore Mario Pomilio. Le circostanze nelle quali accadde furono particolarmente delicate, per il poeta e narratore. Nato a Orsogna in Abruzzo il 14 gennaio 1921, deceduto a Napoli il 3 Aprile del 1990. Poco più che trentenne, assisteva la moglie in clinica. La consorte era in procinto di dover affrontare un impegnativo intervento chirurgico. Tra le evidenze dei rischi connessi all’operazione, l’ansia, e lo stato emotivo, dettato dalle circostanze, generarono una profonda alterazione nel suo animo. Tutto l’armamentario ideologico, laicista, materialista e di sinistra, del quale era dotato, il già promettente intellettuale, subì un vero e proprio corto circuito. Causa di ciò, il comportamento di convinta tenerezza e misericordia, che la suora del reparto riservò alla sua fragile consorte in quel contesto.
Mario Pomilio e la scelta di Napoli
Pomilio, riportò in seguito, nel suo libro autobiografico Scritti cristiani del 1979, l’episodio. Atmosfere, che lo coinvolsero compiutamente. E lo indussero a scrivere in seguito: «L’onestà intellettuale è un esercizio di moralità, una religiosità che si esplica non nei proclami, ma nella giustezza delle opere, non per parlare in nome di Dio, ma nel fare come se si fosse al cospetto di Dio». Tutto ciò l’aveva riscontrato, nell’agire della religiosa. Un mondo nuovo si spalancava per l’autore abruzzese. Consapevolezze che da quella vicenda, lo accompagnerà sempre. Per tutta la vita. Stimolato da un inesauribile desiderio di approfondimento delle ragioni e fondamenta del suo sentirsi cattolico. Nel 1949 ottenne la cattedra per l’insegnamento dell’Italiano al liceo di Napoli “Vincenzo Cuoco”. Nonostante fosse innamorato della sua terra d’origine, si trasferì a vivere nella città partenopea, dove concluse la sua esperienza terrena. A Napoli, consolidando l’attività di critico, storico e saggista della letteratura, ebbe modo di entrare in rapporto e collaborazione con intellettuali e scrittori napoletani quali Luigi Compagnone, Luigi Incoronato, Domenico Rea. Con loro nel ’60 fondò la rivista Le ragioni narrative. Si intensificò, anche la sua attività di pubblicista, con la collaborazione con il quotidiano della città partenopea Il Mattino.
Il legame immutato con l’Abruzzo
Nonostante che Napoli fosse diventata la seconda casa, dell’Abruzzo sua terra natale conservò sempre una tensione affettiva solidissima: «Più in la che Abruzzi», faceva dire il Boccaccio a un suo personaggio per dare il senso del lontano, dell’appartato, del favoloso. E la sua può sicuramente essere assunta a espressione proverbiale per designare la condizione e la storia degli abruzzesi. Nel libro La compromissione, dal quale emergono tratti biografici, il protagonista, è un intellettuale di sinistra in crisi. Situazione conflittuale, che lo porterà, anche per motivi privati, a distaccarsi e a non riconoscersi più in quello schema ideologico. Al libro, verrà assegnato il Premio Campiello nel 1965, quando già da tempo erano maturati altri orizzonti, idealità alternative alle sue precedenti. Questo interrogarsi con occhio nuovo, portava a far lievitare un senso di comprensione umana, anche a fronte di argomenti all’epoca ancora dilanianti e incandescenti, come quelli inerenti al secondo conflitto. Questo è il caso di Il cimitero cinese opera pubblicata nel 1969. In Francia, a quattro anni dalla fine della guerra, una ragazza tedesca e un ragazzo italiano, decidono di fare una vacanza. Questo semplice schema, sarà trattato come incisivo vettore dell’affiorare di dolorose ferite non ancora rimarginate. Recriminazioni, gli asti e gli odi, che i vari gestori francesi dei bar o ristoranti, riverseranno, con atteggiamenti manifestamente sgarbati e ostili sugli incolpevoli ragazzi. I rapporti, tra i popoli europei andavano ricuciti dalla base.
Il desiderio di futuro
Nella guerra “14 “18, gli Inglesi avevano schierato dei militi cinesi non pienamente consapevoli della situazione, contro i soldati tedeschi. Quest’ultimi, decimarono gli avversari. I due ragazzi, spiazzati e addolorati dalla cattiva accoglienza si ritrovano casualmente nel cimitero che ospita i caduti cinesi. Parlano con il custode, un cinese sopravvissuto,il quale dicendo che in guerra ne ha visti morire tanti da entrambi le parti, non prova odio, ma solo desiderio di futuro. In questo traspare tutta la pienezza della pietas cristiana dell’autore. Partendo da questo sentimento, nel quale avvolgere le tragedie umane, pare ci suggerisca Mario Pomilio , ci si la possibilità di ricostruzione. Di un domani, non dimentico, ma alleggerito dalla drammaticità di una stolta e improduttiva, novazione di odio e conflittualità. L’autore, forte anche delle sue convinzioni religiose, propone la via d’uscita da catastrofi come le guerre, che da sempre, quasi fosse una delle sue condanne, accompagna il destino dell’uomo. La strada maestra che ci indica in questa opera, è quella della pacificazione. In questa scelta di valori, con i quali orientare i propri comportamenti, rimane attualissimo, per quanto l’approccio dello scrittore.
Dopo Hiroshima e gli orrori in Europa
Il quinto evangelio è il lavoro dell’autore abruzzese, considerato tra i suoi di maggior rilievo. L’impasto della vicenda, non a caso forse, nasce ancora attorno alla fine della II guerra mondiale. Conflitto, che aveva segnato più di una generazione. Bisogna ritrovare la via, la retta via, i valori etici e morali, erano rimasti fiaccati in tutti. Dopo Hiroshima e, gli orrori vissuti in Europa, i quesiti di fondo che si affacciano alla coscienza umana, facevano da corollario a paura, timori e incertezze. Il protagonista, Peter Bergin, ufficiale statunitense nel 1945 è di stanza a Colonia, alloggia in una canonica di una Chiesa oltraggiata dai bombardamenti. In essa, l’ufficiale, che nella vita civile è un docente, scopre tracce di anni di ricerche operate dal parroco del luogo, su un misterioso “quinto evangelio”. Atmosfera, che fatti i dovuti distinguo, porta a In nome della Rosa di Umberto Eco. Il meccanismo letterario, che ruota attorno al “libro da ritrovare, è molto efficace. In questo caso pare alludere alla ricerca del frammento di ”Verità”, che rende tutto definitivamente chiaro compiuto. La ricerca del testo sarà serrata. La soluzione, con una metafora che mobilita gli strati degli interrogativi più personali di ognuno, forse sono racchiusi tra le carte del deceduto Professore Bergin, del quale un suo appunto ritrovato recita così: «Un uomo andava pellegrino cercando il quinto evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, per l’affetto d’averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: “Procura d’incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio”». L’autore, pare ci voglia dire, che ognuno deve fare il suo percorso di ricerca, costante, tenace. E chissà, si avrà l’incontro decisivo, come quello che ebbe Mario Pomilio con la religiosa che diede amorevole conforto e assistenza alla moglie.