25 Aprile, la Festa della grande menzogna: antifascismo e democrazia non sono sinonimi
Tre quarti e oltre di secolo dovrebbero bastare a far rileggere gli eventi della storia senza la lente deformante di ideologie, sentimenti e risentimenti. Soprattutto quando il decorrere del tempo, più che levigarli, quegli stessi eventi finisce per avvolgerli ancor di più in nubi tossiche e zone d’ombra. Al di là delle celebrazioni ufficiali, è esattamente quel che sta accadendo alla Festa del 25 Aprile giunta al suo 76° anniversario in veste di mito sempre più avvizzito e divisivo. E non certo perché insidiato da inesistenti «fascismi di ritorno», utili solo a fornire traballanti alibi a chi ha talmente interesse a tenere incagliata l’Italia nel tunnel del suo inestinguibile dopoguerra da trovare più conveniente arredarlo che percorrerlo. Fuor di metafora, è sempre più evidente che la retorica della Resistenza è da tempo in affanno. Ma più i suoi aedi tentano di rinverdirla, più il suo respiro si fa corto.
Il 25 Aprile e la lezione di Orwell
E questo perché si cullano nell’illusione che per rivitalizzarla sia sufficiente rinfocolare l’antifascismo. Spesso con leggi stupide, come la “Fiano”, o lanciando accuse di “revisionismo” contro ogni interpretazione o rilettura di quei fatti che si discosti dalla vulgata ufficiale. Come se il revisionismo, per altro, fosse un virus e non un’attività di indagine sul passato che lo storico compie sulla base dell’acquisizione di nuove fonti testimoniali o documentali. Negare questa elementare verità equivale a disconoscere le finalità stesse della storiografia. C’è un interesse a farlo. «Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato», si legge infatti in “1984“. Nell’Oceania di George Orwell, il partito totalitario al potere aveva coniato questo slogan esplicativo del bi-pensiero, che calza alla perfezione se calato sulla Resistenza, fenomeno ancora oggi culturalmente ipotecato dalla narrazione della sinistra ex, post e neocomunista. La stessa fazione che dalla mancata fuoriuscita dal tunnel lucra la maggiore rendita politica.
Ricorrenza egemonizzata dal Pci
È una strategia che viene da lontano, concepita dal Pci al fine di far coincidere democrazia e antifascismo, due concetti non sempre sovrapponibili come ben comprende chi sa che vi è un modo comunista di essere antifascista che non conduce alla democrazia. L’operazione, tuttavia, ha avuto successo. Attraverso l’egemonizzazione – prima militare, poi politica e infine culturale della Resistenza – il Pci è riuscito ha realizzare l’equazione “antifascismo uguale democrazia”. Ma in questo modo – come di recente ha sottolineato ad Atlantide, su La7, uno storico del calibro di Paolo Mieli – l’ha trasformata in una narrazione di parte. Una parte, per giunta, fattasi negli anni sempre più esigua e rabbiosa fino al punto da utilizzare le celebrazioni del 25 Aprile per regolare conti politici a sinistra o per dare sfogo a pulsioni antisioniste come avvenne con la inqualificabile contestazione dei reduci delle Brigate Ebraiche.
Resistenza “tradita” e terrorismo rosso
Non deve stupire. La pulsione a disfarsi dei non-comunisti è uno schema collaudato durante la Resistenza. Ne restarono vittima combattenti cattolici, monarchici, azionisti. Non per cieca ferocia, ma in esecuzione del progetto politico-militare della “seconda ondata”. In parallelo alla guerra contro il nemico fascista e nazista, i comunisti ne combattevano infatti un’altra non dichiarata, ma ugualmente feroce, contro partigiani di diverso colore politico. Prova ne siano le violenze a guerra finita e i vari “triangoli della morte” documentati prima da Giorgio Pisanò e raccontati poi da Gianpaolo Pansa. Come pure il mito revanchista della “Resistenza tradita” che tanta parte ebbe nella genesi del terrorismo rosso negli anni ’60 e ’70. Proprio così, tradita. Ma da chi? Da quegli stessi comunisti che nel 25 Aprile vedevano l’inizio e non la fine del processo di Liberazione e che poi finirono per allinearsi agli equilibri disegnati a Yalta da Stalin e Roosevelt, con Churchill in veste di spettatore, in base ai quali l’Italia rientrava nella sfera d’influenza americana.
Le Br e «l’album di famiglia della sinistra»
Per fortuna, aggiungiamo oggi alla luce della sorte riservata da quell’intesa a cechi, slovacchi, polacchi, romeni, bulgari, ungheresi e tedeschi dell’Est. Popoli che avrebbero rivisto la luce della libertà solo dopo mezzo secolo più tardi. A conferma che il Secondo conflitto mondiale non fu affatto una guerra di liberazione. Altrimenti, quegli stessi popoli non sarebbero finiti sotto il tacco sovietico dopo essere stati schiacciati dallo stivale nazista. “Resistenza tradita”, dunque, in nome della togliattiana “marcia nelle istituzioni”. I comunisti, in gran parte ancora armati alla fine della guerra, furono costretti da Yalta a fare di necessità virtù. Ma il sogno di un 25 Aprile come avvio della “seconda ondata” per spazzare via borghesia e democrazia parlamentare non si dissolse del tutto. Nidificò altrove e dalla sua covata nacque il mito giustificativo del brigatismo rosso. Un’ascendenza riconosciuta in pieno sequestro Moro da Rossana Rossanda che, in un corsivo sul Manifesto, inserì le Br nell’«album di famiglia» del comunismo italiano.
Il 25 Aprile e le “ragioni dei Vinti”
Parole dure come pietre, che scatenarono un dibattito lacerante a sinistra. E tanto bastò, anche perché il clima degli anni risultava tutt’altro che propizio per una rivisitazione non retorica della Resistenza. Oggi potrebbe essere diverso, sebbene sia difficile che possa accadere almeno fino a quando la sinistra ex, post e neo-comunista continuerà a trattenere in ostaggio la memoria collettiva. Fino a quel momento, la Liberazione continuerà a raccontare una verità di parte, cioè una diversamente menzogna. E il 25 Aprile continuerà a celebrare una guerra fratricida, nella quale – si sa – non si riconoscono né vincitori né vinti. E siamo al punto. Solo l’esplicito riconoscimento della dignità dei secondi, potrà restituire senso e consenso a quella data. Se ne facciano una ragione i sequestratori di memoria, gli antifascisti di mestiere e i semprepronti a rivestire di orbace (ieri Craxi, poi Berlusconi, oggi Salvini, e per certi versi, persino Renzi) chiunque percepiscano come minaccia per le loro rendite di posizione. Gente che ha convenienza a far sentire solo il suono della propria campana. Ignorando, forse, che il rintocco di una sola annuncia i morti e non festeggia i vivi.